Giuda, cronaca di un processo. Chi difende il traditore?

by redazione

La richiesta assolutoria di un inquisitore è nota stonata, fuori dal coro; la parte non gli si addice: deve scovare, stanare il male e trovarvi i rimedi, «comprendere l’abisso ma anche la realtà quotidiana». Se poi l’imputato s’identifica in Giuda Iscariota, il traditore, allora l’autodafé diventa inevitabile: atto dovuto, da accusatore ad accusato. Per alcuni è concorso esterno, per altri concorso morale: finezze giuridiche, enflure linguistica, cambia poco: la sentenza è sempre di condanna.

Il processo contro Giuda era arrivato alle battute finali: il giorno (annunciato da clamori prevedibili) era quello delle conclusioni delle parti processuali e, quindi, della sentenza: lui, l’inquisitore, avrebbe parlato per primo, poi tutti gli altri, come prescrive la legge: la ricerca della verità esige percorsi prestabiliti, precisi, ogni deviazione è motivo di gravame. Sapeva che non sarebbe stato facile essere persuasivo: convincere il Giudice dell’innocenza dell’imputato, di quell’imputato, sentirne la sua assoluzione, vedere trasformarsi le ipotesi, le sue ipotesi, in Verità.

Entrò nell’aula del tribunale accompagnato da alcuni suoi collaboratori; sembrava la prima volta che vi entrasse, tanto era smarrito, turbato: avrebbe voluto scappare, fuggire altrove, lontano da quel luogo che per un attimo gli sembrò estraneo, ma la funzione ammette solo l’errore incolpevole, giammai la codardia. Tra le braccia, non ancora indossata, la toga gallonata in oro ben in vista e le gambe già tremanti, sentiva le pulsazioni in gola; il brusio del numeroso pubblico presente cessò improvvisamente al suo ingresso, ne incrociò rapidamente gli sguardi ostinati, arditi, imploranti verità e giustizia: la loro verità e la loro giustizia, ignari che il Padrone della vigna può fare delle sue cose quello che vuole.

Conoscendo i tempi e le scansioni del processo, sapendo essere arrivato il suo turno, si alzò pesantemente dalla sedia, si schiarì la voce e, invitato dal Giudice a rassegnare le conclusioni, iniziò la sua requisitoria. Era quello il momento, il suo momento: passò in rassegna i risultati delle sue indagini e subito riportò la testimonianza di una mistica medievale, Santa Caterina da Genova, nata Fieschi Adorno: in uno dei suoi rapimenti estatici, che la trascinavano verso la maestà di Dio, poiché le venivano rivelate e mostrate grandi cose, Lo interpellò sulla sorte del traditore. Ed ecco un Cristo sorridente dirle: «Se tu sapessi quel che io ho fatto per Giuda!», alludendo alla sua salvezza.

Subito dopo l’inquisitore relazionò sull’esito di un sopralluogo (delegato ad un suo “collega” più meticoloso): in Borgogna, nel piccolo borgo di Vézelay. Sulla strada percorsa dai pellegrini verso Santiago di Compostela, sorge la chiesa abbaziale dedicata a Maria Maddalena. In alto, sul primo capitello a destra per chi entra, c’è una scultura poco conosciuta: vista da vicino sconcerta. Da un lato si vede Giuda impiccato, con la lingua di fuori, circondato dai dannati, dall’altro lato del capitello, un pastore che porta sulle spalle il corpo del traditore. Quest’uomo – il pastore – svela una strana smorfia sul volto: metà bocca appare rattristata, l’altra metà sorridente.

Capì subito, allora, che quello era il momento decisivo per l’affondo, per la domanda che scuote: «E se fosse il Buon Pastore che porta sulle sue spalle la pecora perduta, la centesima per cercare la quale ha lasciato tutte le altre?». Fece una breve pausa quasi a voler leggere negli occhi del Giudice la risposta, ma subito rincalzò: «Un amico, un vero amico, anche se tradisce, lo si perdona sempre, lo si salva» e avvertì immediatamente che l’affondo era andato a segno: touché!

Ma ogni processo nasconde labirinti: percorsi accidentati e tortuosi che bisogna necessariamente percorrere per giungere alla verità. Sono i riscontri oggettivi a valorizzare le prove, in mancanza dei quali ogni sforzo rimane superfluo, inutile, a volte controproducente. E lui non poteva correre questo grave rischio. Ed allora ricordò le parole di quell’Ultima Cena, di quell’invito che il Nazareno rivolse a tutti, nessuno escluso, nemmeno il traditore: «questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue, offerti in sacrificio per voi, prendete, mangiatene e bevetene tutti».

Intanto, nell’aula il pubblico capì le intenzioni dell’inquisitore e subito montò un bisbiglio di disappunto che si propagò, impadronendosi clamorosamente di tutta l’aula, che il Giudice – però – zittì con un colpo secco, deciso, sulla cattedra.

L’inquisitore riprese e, con voce sempre più decisa, iniziò a ricordare di quando ancora bambino si recava in un antico monastero che ancora oggi domina la valle e le case del suo paese: in memoria di quegli eventi straordinari, l’altare della reposizione veniva scenograficamente allestita con un tavolo per tredici commensali, ma apparecchiato solo per dodici. Incerto, contava sulla punta delle dita fino a tredici e frignando chiedeva spiegazioni alla mamma, ma questa lo rimproverava: «zitto e prega»; rimaneva corrucciato fino alla risposta: «il posto a tavola non apparecchiato è quello di Giuda: è stato malvagio, ha tradito il Signore ed è all’inferno». Distrazione scricchiolante, rimediata (dopo anni).

Seguì nella sua requisitoria citando e ripercorrendo altre testimonianze, altre prove, ma non volle sottrarsi al richiamo del diritto; riportò allora il principio generale della causalità: nessuno può essere condannato per un fatto se l’evento non è conseguenza della sua azione e la condotta umana è causa se rappresenta un antecedente senza il quale l’evento non si realizza. Sfoderò, a seguire, ancora una domanda: «Cosa sarebbe successo se non ci fosse stato quel bacio, quel tradimento?» Questa volta alla domanda seguì immediatamente la risposta centellinandola: «nulla, assolutamente nulla: atto prefissato nel Progetto Redentivo tanto da essere impossibile, per Giuda, cambiare l’ordine delle cose. Destino segnato il suo, posto predestinato».

Era quasi alla fine del suo intervento, quando gli si avvicinò un addetto alla sicurezza che poggiò sul banco un biglietto; ne sbirciò il contenuto: «dottore, si affretti! Deve immediatamente abbandonare il Palazzo di Giustizia: la gente fuori è inferocita. Ascolti il mio consiglio: esca dal retro!» e già un collega era lì pronto a sostituirlo. Si avvicinò alla cattedra del Giudice per scusarsi di quanto stava succedendo e questi, con un cenno impercettibile del capo, annuì. Frettolosamente uscì dall’aula tra le grida del pubblico che a stento le forze dell’ordine riuscivano a contenere e raggiunse, attraverso i sotterranei, l’uscita di sicurezza, quella sul retro. Una folla di pensieri gli tumultuava nella mente, domande senza parole.

Non seppe né si informò mai dell’esito di quel processo (d’altronde “chi esce dal retro” non sa mai il finale delle storie, della Storia). Qualcuno lo mise al corrente solo della breve durata della camera di consiglio. E a quanti gli chiedevano se, nel corso degli anni, avesse cambiato idea, rispondeva deciso: «ho fatto tutto in scienza e (co)scienza ed ho sempre creduto nell’innocenza di Giuda, pur consapevole dello scandalo della mia richiesta. Del resto, come volete che sia la Misericordia di Dio, se non “scandalosa”?».

Tonino Daniele

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