Il bipartitismo imperfetto e i suoi nipotini

by Enrico Ciccarelli

Molti analisti e politologi dibattono sulla vertiginosa parabola del Movimento Cinque Stelle, meno di due anni fa scelti da un elettore su tre o giù di lì e oggi in caduta libera, fino a rischiare in alcuni sondaggi la doppia cifra. È un fenomeno solo in parte ascrivibile all’inedita mobilità dei flussi elettorali e alla precarietà delle leadership in questa stagione tormentata e incerta.

Schiantati alla prova del Governo, senz’altro, nella quale sono riusciti a essere persino peggiori delle peggiori previsioni (invece che una congrega di scellerati pronti a sfasciare tutto, sono apparsi una litania della poraccitudine, del confuso manettarismo e dell’insipienza tecnica e strategica). Lo sciagurato Toninelli, con le sue gaffe leggendarie, è stato il simbolo di una stagione succube del machismo salviniano, intessuta di meschine faide e indecisa a tutto, con tanto di trionfi patetici e miserande ipocrisie.

Piaccia o meno, solo Silvio Berlusconi ha avuto con il Paese una connessione sentientale duratura. Avrà certamente pesato l’avere un patrimonio personale di quasi dieci miliardi di euro, il suo essere nel bene e nel male un Arcitaliano, una empatia con la gente comune che ha resistito a lungo all’usura dell’ovvietà e delle cadute di stile; ma è un dato di fatto.

D’altronde è lui, il Cavaliere, ad avere inaugurato, con la Seconda Repubblica, la trafila degli incantatori di serpenti, dei pifferai magici seguiti con ingenuo ottimismo dagli elettori. Certo, il sogno incantato del tycoon si è poi trasformato nell’incubo di ignoranza e sterile rabbia di Grillo e dei Cinquestelle, e in quello ancora più sanguinario e intriso di odio di Salvini; ma va detto che nessuno di questi esiti è comprensibile se non si comprende quale sia stato il suo vivaio, la sua incubatrice.

La mia opinione è che questa culla sia stato il bipartitismo imperfetto, come Giorgio Galli chiamò l’organizzazione del sistema politico italiano (in letteratura pensò Italo Calvino a darne la ricostruzione più bella e suggestiva, nel superbo racconto satirico La gran bonaccia delle Antille, pubblicato nel 1957 su Città Futura). Il sistema era decisamente bipolare, con due partiti, il Pci e la Dc, che raccoglievano insieme i favori di due terzi (e a volte di tre quarti) dei votanti.

Ma questi due partiti chiave erano fissati in ruoli immutabili. Il Partito Comunista, per ovvie ragioni geopolitiche, non avrebbe potuto andare al Governo se non per il tramite di cataclismi; simmetricamente, identiche catastrofi avrebbero potuto condurre la Democrazia Cristiana all’opposizione. Al rapporto con il grande partito cristiano democratico si riconducevano le alterne fortune di socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, le forze alla sinistra del Pci, quando c’erano, erano marginali e ininfluenti, a destra la ridotta missina aveva solo un valore di testimonianza nostalgica.

Questo sistema bloccato e immodificabile corrispondeva in modo perfetto al macchinoso e spossante ordinamento costituzionale, disegnato scientemente dai Padri Costituenti come un percorso obbligato verso la democrazia consociativa. Un disegno che fu sotto certi aspetti provvidenziale: l’Italia non conobbe una seconda e ferocissima guerra civile come la Grecia; in Italia non venne messo fuori legge il Partito Comunista come in Germania; le vittime delle tensioni sociali e dei celerini di Scelba (morirono di morte violenta più militanti del Pci in quel periodo che in tutto il Ventennio fascista (escluse guerra e Resistenza, ovviamente) non devastarono il quadro istituzionale.

In questa situazione bloccata la distinzione anglosassone fra politics (lotta per il consenso) e policy (arte del governare) divenne rapidamente priva di senso. Il Partito Comunista assumeva la rappresentanza di qualsiasi protesta o critica, non importa quanto stralunata e impraticabile, perché riteneva che questo fosse il compito precipuo dell’opposizione. Dall’altra parte la Democrazia Cristiana e l’area governativa in generale si preoccupavano soprattutto di accontentare o di non scontentare troppo gruppi sociali e portatori di interesse, che in mancanza avrebbero potuto sbandare a sinistra o (come in qualche occasione avvenne) a destra.

Lo spettacolo della politica era di asperrima contraddizione all’esterno, con parole al vetriolo, slogan trucissimi e ostentazione di sprezzo quasi antropologico verso gli avversari/nemici, e di forte collaborazione interna. La maggior parte delle leggi approvate, da costante prassi parlamentare, aveva il sostegno di tutto l’arco costituzionale.

Il contesto era quindi caratterizzato da una poderosa dissociazione fra narrazione e fatti, e da una infrenabile tendenza al millenarismo, l’aspettativa messianica coltivata dai comunisti in attesa di rivoluzione e fascisti in attesa di resurrezione (politica) del Duce.

La seconda Repubblica, la democrazia decidente, il maggioritario sono stati miraggi e fatemorgane, sotto il cui clamore e le cui luci persisteva il corpo opaco di quelle pessime abitudini. Lo dimostra il fatto che gli unici due tentativi seri di modificare il nostro ordito costituzionale (la riforma Berlusconi del 2006 e la riforma Renzi del 2016) sono stati abbondantemente bocciati dai cittadini, mentre mutamenti scellerati come la riforma del Titolo Quinto del 2001 o l’attuale demenziale riduzione del numero dei parlamentari (che non tocca il nodo del bicameralismo paritario) sono state o saranno confermate con ampio margine.

L’apogeo e la rovina dei Cinquestelle sono tutti lì: nell’avere proposto una narrazione berciante, impraticabile e pericolosa, ma adatta all’inesistente spirito di comunità degli Italiani, uniti –e non sempre- solo per il Festival di Sanremo e le partite della nazionale, e per il resto pregni di spirito di corporazione, di campanilismo, di familismo amorale.

Consegnata al rigattiere delle cose inutili la trista favola del grillismo e dello sfogatoio pentastellato, si profila all’orizzonte un’altra narrazione parimenti immaginaria, quella del sovranismo alle vongole, delle pretese protezionistiche dell’ottavo o nono Paese esportatore del mondo, dell’Europa matrigna e della Merkel cattivona. Altrettanto farlocca, altrettanto destinata ad un rapido successo e a una repentina ecatombe. Il rischio è che, di pifferaio in pifferaio, di cialtronata in cialtronata, gli sbandamenti italiani siano troppo vistosi e improvvidi per essere contenuti da un po’ di paternalismo monetario alla Draghi o da una generale supponenza di too big to fall. Rischiamo di pagare tutti molto salate le abitudini dei cattivi maestri di un tempo e dei loro insulsi eredi.

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