Il Muro e chi lo eresse. Un manifesto grottesco

by Enrico Ciccarelli

Ho partecipato anche io al giubilo occidentale per il trentennale della caduta del Muro di Berlino. Come è stato più volte detto, l’unico muro della storia che sia stato eretto non per tenere fuori chi era fuori, ma per tenere dentro chi era dentro: non una barriera a protezione dall’esterno, ma la cinta confinaria di un’immensa prigione. Una vastità come la Repubblica Democratica Tedesca che blindava e sorvegliava quasi ossessivamente la ristretta superficie di Berlino Ovest, la ridotta democratica e liberale in una zona di feroce tirannide.

Feroce ed eterodiretta: perché il Cremlino non esercitava, nella Prussia occupata, solo la stessa oppressione imposta a tutti i satelliti d’Oltrecortina. Vi aggiungeva odio e vendetta per gli infiniti lutti della seconda guerra mondiale. Già in tempo di guerra l’occupazione dell’Armata Rossa ebbe caratteristiche di particolare brutalità (oltre ai tre milioni di donne violentate si possono ricordare le centinaia di migliaia di soldati tedeschi morti di fame nei campi di prigionia). Negli anni successivi la zona sotto il controllo sovietico venne in ogni modo depredata (amputata) con territori “ceduti” alla Polonia a compensazione di quelli polacchi acquisiti dall’Urss.

Della Germania, anche così malridotta e divisa, faceva paura la grande potenzialità economica, il superiore livello di istruzione, persino la coscienza di classe, eredità della socialdemocrazia. Non  a caso furono represse nel sangue (oltre cinquemila arresti, diverse condanne a morte, più di cento caduti negli scontri) le proteste operaie del luglio del 1953, con l’intervento diretto dell’Armata Rossa. Il Governo di Pankow (il quartiere berlinese dove aveva sede l’esecutivo della Ddr) non ebbe mai nemmeno la parvenza di un potere autonomo: semplici Quisling, fantocci di una potenza straniera.

Se non si comprende la radice antitedesca dell’atteggiamento sovietico, non si comprende il Muro. L’intollerabilità di Berlino Ovest, di un’insula di libertà all’interno della Cortina di Ferro provocò prima il tentativo di strangolare e prendere per fame i quartieri occidentali dell’immensa capitale (fallito grazie all’imponente ponte aereo del 1948-49) e quindi l’insensata costruzione. Serviva, diceva la propaganda, a impedire che gli abitanti di Berlino Ovest si riversassero in massa nei quartieri orientali. Ma le torrette dei Vopos con le mitragliatrici rivolte all’interno della cinta muraria spiegavano benissimo quale fosse la realtà.

Il problema è che a quella propaganda aderiva ciecamente una parte rilevante dell’opinione pubblica italiana. In quel mondo diviso in blocchi, nei quali si stava di qua o di là, il secondo partito italiano non aveva alcun dubbio sulla parte da cui stare.

Malgrado fosse guidato da un uomo di grande lungimiranza come Palmiro Togliatti (che impedì che il dopoguerra italiano fosse funestato da una guerra civile come in Grecia), il Pci aveva solo a fatica preso le distanze dal terrore staliniano (lo stesso Togliatti si batté perché il rapporto Kruscev al XX Congresso del Pcus non fosse reso pubblico) ma continuava comunque a ritenere vitale il rapporto (ideologico, materiale, finanziario) con il blocco sovietico e i Paesi del “socialismo reale”.

Difficilmente uno solo fra gli elettori e i militanti del Pci di allora avrebbe sottoscritto il celebre “Ich bin Berliner” che John Fitzgerald Kennedy pronunciò sotto la muraglia appena eretta. E sicuramente non lo avrebbe fatto nessuno fra i suoi dirigenti, compresi uomini di eccelsa statura morale come Giorgio Amendola o Pietro Ingrao.

L’errore tragico del Muro, inserito com’era all’interno della tragedia del Patto di Varsavia e della Cortina di Ferro, della Guerra Fredda e dell’equilibrio del terrore, fu difeso o tollerato per anni. Perché, malgrado la via italiana al socialismo e le altre retoriche del caso, il popolo del Pci si sentiva straniero in Patria, e la sua propaganda e si nutriva di costanti manipolazioni e rovesciamenti della realtà. Quando parliamo di fake news, della “Bestia” e di consimili orrori, sarà bene dirci che trovano la loro radice nella doppiezza di quegli anni, nell’omaggio formale alla democrazia rappresentativa costruito sull’attesa della imminente e necessaria dittatura del proletariato.

La falsificazione dei fatti fu cifra stilistica di quell’attesa. Luigi Pintor raccontava che, ai tempi del suo lavoro all’Unità, negli anni Cinquanta, si verificarono in Piazza San Giovanni violenti scontri fra gli studenti di destra che manifestavano per Trieste italiana e gli operai edili mobilitati dal Pci per impedirglielo. Scontri violentissimi, con un buon numero di feriti. Il giorno dopo il titolo del quotidiano del partito era “Operai e studenti fraternizzano in Piazza San Giovanni”.

Il tempo trascorso e le mutate circostanze permettono di parlare di queste vicende in modo sereno e perfino sorridente. Ma il timore è che certe abitudini siano dure a morire: l’indignazione (sacrosanta) per gli insulti antisemiti a Liliana Segre convive con la scarsa reazione alle inqualificabili frasi di Chef Rubio sugli ebrei “avari e pulciari dalla notte dei tempi”.

Allo stesso modo il Partito Democratico, in cui militano molti eredi del Pci (quello di cui Massimo D’Alema ha testé detto di avere nostalgia) ha la brillante idea di fare un manifesto in cui orgogliosamente si proclama: “Potete costruire muri. Ci troverete ad abbatterli”. Che è un po’ come se Fratelli d’Italia facesse un manifesto scrivendo: “Potete approvare leggi razziali. Ci troverete a spazzarle via.”

Per carità, le colpe dei padri non ricadono sui figli, e siamo certi che il proponimento sia sincero: ma questa insistita abitudine a mettersi dalla “parte giusta” della storia e addirittura a fingere di esserlo sempre stati, quando le evidenze dicono il contrario, ha sinceramente effetti grotteschi. Processare la storia con gli occhi dell’oggi è quasi sempre un esercizio sciocco: capovolgerla è peggio. 

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.