Il ritorno di mastuggiorgio. La brutalità che rimuoviamo e ci riguarda, ben oltre i confini del «Don Uva»

by Enrico Ciccarelli

Ho atteso diversi giorni prima di parlare della clamorosa, terribile atroce vicenda delle sevizie patite da alcuni pazienti psichiatrici ricoverati al «Don Uva», di cui sarebbero responsabili diretti addirittura quindici dipendenti, arrestati, con altri quindici a vario titolo indagati.

Un’attesa necessaria a vederci chiaro, naturalmente; la tortura del giornalismo consiste nell’abitare la battaglia senza combatterla direttamente. Quando ogni fibra della tua coscienza è posseduta dall’indignazione, quello non è il momento di scrivere.

Perché gli arrestati, malgrado i pesantissimi indizi documentali, vanno considerati non colpevoli fino a sentenza definitiva, perché l’inevitabile proliferare di dettagli morbosi sarebbe ulteriore insulto ai brutalizzati, perché ogni facile generalizzazione rischierebbe di far pagare a onesti lavoratori e all’impresa di cui sono al servizio i crimini di pochi, soprattutto perché tutte le volte che si accende un rogo per la strega di turno, sorge il legittimo sospetto che quelle fiamme servano anche ad esorcizzare, a bruciare la coda di paglia della nostra cattiva coscienza.

L’inchiesta e il processo determineranno le singole responsabilità, le colpe dirette e le possibili omissioni, la dolosa o colposa trascuratezza che può avere agevolato la disumana ferocia che viene riferita. Per quel che so degli imprenditori proprietari di Universo Salute, mi sento di escludere qualsiasi avallo o consapevole acquiescenza rispetto alle angherie. E per la lunga frequentazione che ho avuto con il mondo della sanità privata del nostro territorio, conservo in massima parte esempi non solo di qualificazione e professionalità, ma anche di sensibilità e umanità superiori alla media.

Vogliamo quindi spiegare l’accaduto con una improbabile calata di alieni? Con la casuale presenza di un gruppo di qualche decina di mostri in una comunità illibata? Troppo semplice: in realtà l’arco temporale in cui sarebbero stati compiuti gli abusi, la partecipazione diffusa e sistemica ad essi e la loro natura crudelmente ludica racconta una storia diversa.

Non c’è bisogno di scomodare Michel Foucault e la sua «Storia della follia nell’età classica» per sapere che il manicomio come luogo di segregazione è coevo alla nascita della società industriale, al nuovo imperativo categorico della produttività. Se prima il folle era il segnato da Dio, ora diventa un intoppo, un disertore, un nemico. Le diverse «leggi sui poveri» di Elisabetta la Grande, nell’Inghilterra fra Cinque e Seicento, tracciano bene –con la loro natura divisa fra assistenza e repressione- il parallelo fra povertà, mendicità e malattia mentale; tutte patologie sociali da eradicare con la reclusione.

Le violenze del «Don Uva» appartengono all’album di famiglia dei manicomi d’Europa e d’Italia. Apparteneva d’altronde all’Opera di don Pasquale Uva Il famigerato lager di Bisceglie, non certo il meno importante nella crociata di Franco Basaglia, che agli odierni orrori fornisce antesignani illustri. Né può sfuggire la sottile fraternità fra questa vicenda e quella occorsa ad agosto presso la Stella Maris, la Casa di Riposo sipontina dove episodi (peraltro molto meno gravi ed estesi) hanno comunque riguardato persone anziane, altri esponenti del vasto girone infernale dei dannati dell’improduttività.

La segregazione di un tempo è stata sostituita dalla distrazione: persone non più formalmente rinchiuse, ma semplicemente dimenticate, divenute invisibili, consegnate alla prigione dell’abbandono, a quel 41 bis inconsapevole che è la disattenzione di noi tutti.

È in questo cono d’ombra che il buio della specie ha l’occasione di manifestarsi. Perché una condizione di soggiacenza determina deliri di onnipotenza, specialmente se si crede e si fa credere che essere un/una caregiver sia una questione di contratti, orari e stipendi, anziché essere anche e soprattutto un’elezione di Patria, una scelta personalissima e vocazionale.

La cosa forse più terribile è proprio la modalità giocosa o goliardica che le prove raccolte sembrano assegnare alle sevizie. I possibili mastuggiorgi (il termine dialettale napoletano che indica il personale che nei manicomi d’un tempo era addetto al pestaggio dei pazzi, il «castigamatti») del terzo millennio non usano –non più di tanto- percosse e letti di contenzione; il loro sadismo è figlio della società dello spettacolo, del culto dell’intrattenimento che trova uno spasso divertente costringere o convincere due menti ottenebrate ad avere rapporti sessuali fra loro.

Perché nella loro condizione segregata e impedita i malati psichici e i disabili non possono vivere la loro sessualità se non come comando o induzione, perché per parte nostra li abbiamo evirati e condannati a una mortificata castità da quel dì, giusto? Perché mai, allora, i loro corpi non dovrebbero essere trastullo degli stupratori? Ecco, se credete che gli arrestati del Don Uva, quelli che temendo le intercettazioni ambientali si dicevano l’un l’altro «Qui non si scherza più» siano appena arrivati dal pianeta Papalla vi sbagliate di grosso. Sono figli e fratelli nostri, di questo luogo e di questo evo.

La responsabilità degli atti di ciascuno è sempre individuale, ci mancherebbe. Chi verrà giudicato responsabile di atti che –senza paragoni temerari e improvvidi- sembrano usciti dalle pagine più atroci dell’Istruttoria di Peter Weiss (l’Oratorio in undici canti che racconta il processo a un gruppo di SS in servizio ad Auschwitz, ndr), dovrà ricevere un castigo proporzionato e severo. Ma non crediate che sulla scena del crimine manchino le impronte digitali di tutti noi. Per quanto noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.

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