Il tempio diruto e il calcio evirato della sua natura di sport

by Enrico Ciccarelli

Il calcio professionistico italiano, la cui data di nascita può essere fissata all’8 maggio 1898 a Torino, quando in una sola giornata venne assegnato (al Genoa) il primo scudetto, è morto il 4 marzo 2020, con l’emanazione del decreto del presidente del Consiglio dei Ministri recante misure per il contenimento del coronavirus.

Ma non levate i pugni contro al cielo per imprecare contro la pestilenza, non andate alla ricerca furiosa di untori cinesi o tedeschi o del borgo di fianco. La paura e il Covid-19, con il sacrosanto principio di precauzione, sono stati i sigilli di ceralacca apposti a un certificato di morte compilato da tempo.

La chiusura degli spalti ai tifosi, il rito surreale e triste delle porte chiuse è il muro di mattoni che si sistema all’ingresso di un luogo di culto diserto e diruto, la striscia giallonera che recinge il luogo del delitto o l’edificio pericolante.

La fine è avvenuta in modo particolarmente inglorioso, con le società calcistiche intente a dare il peggio di sé, dimostrandosi tutte ancor meno mature del più ottuso e fanatico dei propri tifosi, infelicemente rinchiuse nella loro piccola e meschina bolla di interessi e sponsorizzazioni; ma forse non c’era modo di far figura migliore, essendo la piaga troppo e da troppo tempo incancrenita.

Chi ha ucciso la più grande religione popolare dell’Italia moderna, e come ha fatto? La risposta è semplice: sono state le tv, anzi, per dirla con termine moderno, i broadcaster. E lo hanno fatto nel modo più semplice: evirando il calcio della sua natura di sport e virandolo progressivamente a spettacolo. Il delitto è stato consumato in un arco di tempo molto lungo, come quegli avvelenamenti procurati con dosi minimali ma crescenti di arsenico.

Volendo fissare una data simbolo, andrebbe scelto il 29 agosto del 1993. È in quella sera che dall’Olimpico di Roma Sky trasmette in diretta Lazio-Foggia (toh!), primo posticipo del campionato. Può sembrare una cosa da nulla, ma in realtà è la rottura di una manzoniana e aristotelica unità di tempo che fino ad allora, per 95 anni aveva imposto che le partite si svolgessero tutte allo stesso momento. L’orario d’inizio variava solo per l’incedere delle stagioni e l’istituzione dell’ora legale.

Nel tempio del calcio si celebrava una sola messa, anch’essa domenicale, officiata nella concomitanza dell’evento dalle celeberrime voci dei radiocronisti di Tutto il calcio minuto per minuto, con l’ebbrezza sinestesica dei tifosi in tribuna, in curva e in gradinata, che con gli occhi seguivano una gara e con le orecchie ne percepivano altre, narrate fra un gracchiare e l’altro della radiolina.

L’eucaristia era fissata alle 18,20, quando il pontefice massimo Paolo Valenti conduceva la prima messa televisiva, con una galleria di personaggi improbabili chiamati alle letture di prammatica: l’indolente Necco per il Napoli, il precisino Nesti per Torino e Juve, l’ineffabile e ignorante Bubba per Genoa e Samp e via così. Il racconto delle partite era ancora affare di scrittura, ergo di letteratura e poesia, come negli indimenticabili brani di Gianni Brera e Beppe Viola (e prima ancora di Dino Buzzati e Giovanni Arpino).

Naturalmente non sto proclamando una nostalgia, l’ennesima laudatio di un’Italia piccola piccola e assai più povera. Certo, nel mio ricordo di adolescente la potente immagine di Gigi Riva che si allena a tirare con il suo tonitruante sinistro contro il muro dello “Zaccheria” nell’imminenza di Foggia-Cagliari continua a stagliarsi maestosa, con la gamba sinistra dell’eroe invitto, due volte donata alla patria, che sembra nel ricordo quercia maestosa, con un diametro di coscia quasi doppio rispetto alla destra (ma a noi quel giorno segnò di destro). Ma la modernità ha i suoi diritti e i suoi sacrifici.

La frenesia agonistica del calcio totale, il pensionamento dei memorabili duelli della marcatura a uomo (chi se lo ricorda, Giovanni Trapattoni ad annullare Pelé nella finale Intercontinentale del ’64, con la vendetta carioca che spinse a chiamare Trapattoni l’orango nato in quell’anno allo zoo di Rio?), la scomparsa di quei calciatori geniali che preferivano far correre la palla anziché correre loro (l’ultimo è stato Le Roi Michel), tutti addii comprensibili, come quello alle volée vellutate di Nicola Pietrangeli e ai magici colpi di Sirola di fronte ai siluri del rovescio bimane di Bjorn Borg.

Ma il resto? La mutazione da sport a spettacolo comporta pressoché subito la fine della liturgia telecronachistica: serve un altro chierico, un “commentatore”. Un duo che ripercorre in modo alterno e mutevole le dinamiche del clown bianco e dell’augusto, ma che presto diventa un trio, con l’ingresso del bordocampista, che subito ne germina un secondo. E poi le telecronache “tifose”, rigorosamente una per parte. Anche le giacchette nere si sono moltiplicate, prima con l’avvento del “quarto uomo” e poi con i due giudici di porta, assorbiti oggi nel Var.

E poi le linee del fuorigioco scientifico, la gol-line tecnology, le telecamere (4-6-8-12) l’irruzione negli spogliatoi, l’intervista nell’intervallo fra primo e secondo tempo, gli infiniti replay, il dettaglio emotivo, la manipolazione (ricordate la presunta tifosa tedesca in lacrime subito dopo il gol dell’Italia alla Germania nel 2012? In realtà era commossa per l’inno nazionale, ma in montaggio…). Un’inflazione di codici impressionante, che probabilmente serve a riempire il crescente nulla proveniente dal campo: perché l’onnivoro appetito dei broadcaster vuole sempre più calcio: tutti i giorni, a Natale, a Capodanno, a Pasqua. A orari sempre più pazzeschi per favorire gli utenti della Cina, degli Stati Uniti, della Polinesia.

Se gli spettatori allo Stadium per Juventus-Inter sono 40mila, ma gli utenti televisivi stimati sono due miliardi, è evidente che i primi sono coreografia, dettaglio inessenziale. E siccome il cacio può permettersi al massimo due settimane di ferie, le grandi squadre avranno bisogno di rose sempre più mostruose, ci saranno sempre più infortuni muscolari e sempre più partite in cui le riserve si alterneranno ai titolari, nelle gare che contano meno (che finiscono per essere quasi tutte).

La turpe profezia del calcio separato da sé, proiettato in dimensione aliena, estranea, squallida, era già stata enunciata dieci anni fa, in un luogo simbolico quant’altri mai: Trieste. In questa città di molte patrie e di mille storie, un grande poeta come Umberto Saba aveva scritto le sue mirabili Tre poesie sul gioco del calcio (Ricordate? Il portiere caduto alla difesa…), forse il più bel tributo della letteratura italiana alla breriana prestipedazione. E fu lì che nel 2010 la Triestina, per alleviare il brutto colpo d’occhio degli spalti vuoti, sistemò dei manichini, povero simulacro di spettatori ormai dispersi o defunti.

Sembrava una parodia: era un annuncio. Ma la Nemesi dei broadcaster è già pronta: il calcio attende di trasmigrare per intero sulle piattaforme digitali, nelle incredibilmente realistiche versioni per PlayStation e Wii o simili.  Giocatori fatti di byte, insensibili alle lussazioni e ai bioritmi, inattingibili da ogni morbo che non sia un virus digitale, in squadre perfette con la pioggia e con il sole e la possibilità di giocare ogni giorno Barcellona-Real Madrid e simili, con CR7 e Messi che saranno mandati in pensione dal marketing e non dall’età.

Nell’attesa preghiamo le tv di indorare l’amara pillola di questa transizione: la tecnologia digitale consente ormai con relativa facilità di decorare gli spalti vuoti degli stadi italiani con un pubblico virtuale e immaginario, acquisibile a costo zero e per giunta incapace di petardi, mortaretti, cori razzisti e invasioni. Affolliamo, affoltiamo gradinate, curve e tribune, affianchiamo sagome inventate alle sparute rappresentanze ammesse fisicamente, e corrediamo il tutto con effetti sonori amplificati e sapientemente sincronizzati, magari udibili anche dagli attori sul campo. Così almeno noi, che non abbiamo più molti anni da vivere, potremo conservare una parvenza dell’antico splendore di un culto un tempo gioioso e di un tempio oggi diruto, sul cui ingresso le erbacce testimoniano l’oblio.   

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