Io e Charlie. Capitolo II – Il dubbio, quando la vita capita

by Massimo Fragassi

La mela di Newton e la scoperta dell’America, Kant e il primo uomo sulla Luna. Le poesie di Borges. La Bibbia. Montalbano. Cos’hanno in comune? Il dubbio, amici miei. O la giusta domanda, se preferite.

E’ così. Non c’è storia al mondo, personale o collettiva, che prescinda  da un dilemma. Non esiste invenzione, pensiero o intuizione che non nasca dal’esitazione che solo può una domanda.

E’ una questione grammaticale: il destino non è che una frase senza punteggiatura a cui ognuno è chiamato ad aggiungere virgole e punti. Alcuni abbondano di sospensivi, altri vivono di esclamativi, ma la vita, si sa, ruota attorno a singoli e inattesi punti di domanda. L’universo è un spazio ciclico o un cielo sconfinato? La democrazia è un sistema di governo o una categoria del pensiero? La donna più importante è quella che amiamo o quella che sposiamo? A pranzo il suo minestrone o chiamo mia madre?

Tanto più è breve la frase che forma il quesito quanto più intensa è l’ansia – creativa o castrante – che ne discende. I matematici la chiamano proporzionalità inversa, e ha il suo culmine nella più ermetica e diretta delle domande: Perché?

Ci sono “perché?” che cambiano la vita nel tempo breve di un’intonazione e altri che sedimentano col respiro lungo delle stagioni. Ci sono uomini che per un “perché?” hanno offerto la vita e altri che per lo stesso dilemma hanno dato la morte. Per un “perché?” si scopre, si inventa, si cambia. Si crede, per un “perché?”. Si soffre. Si ama.

Tutto, in fin dei conti, ruota intorno a un punto di domanda. E a dirla tutta, poco conta il senso del quesito: l’importante è che ingeneri un dubbio (Dio li benedica!).

A me, ad esempio, la vita l’ha cambiata un “pronto?”.

Era il 1980, il mese di giugno. La casa dei miei nonni era calda e accogliente, come tutte le case dei nonni, quando hai sei anni. Le notizie del telegiornale scorrevano placide e intermittenti quando lo squillo del telefono irruppe sulla notizia appena battuta di un aereo precipitato nel mare di Sicilia. Mio nonno, naturalmente distratto ai fatti del mondo – come tutti i nonni, all’ora di cena – aveva portato la mano al televisore, ché all’epoca l’audio si alzava lottando con una manopola (Dio benedica il telecomando!). Fu un gesto rapido e inatteso, come solo accadeva quando giocava l’Italia, di quelli che usava per coinvolgere la nonna in un surplus empatico di interesse e apprensione.

Io, degli aerei, conoscevo solo il rumore – a quel tempo alzavo gli occhi solo per guardare le stelle – così, del tutto disinteressato al fatto, nell’indeterminatezza della situazione, decisi di osare: sì, sei anni era l’età giusta per rispondere al telefono.

Ebbro del coraggio della “prima volta”, allungai la falcata fin quasi al soggiorno, arrestando poi il passo poco prima dell’uscio. Un attimo di esitazione – la mia linea d’ombra – infine il terzo squillo e allora ruppi l’indugio. Un salto oltre il confine e afferrai la cornetta, il peso grigio del telefono piantato tra le mani, poi il dilemma, come una sentenza, a cambiare d’improvviso il senso lineare delle cose: “Pronto”?

Un attimo di turbamento, in fine realizzai. Una voce sconosciuta – anonima e lontana – mi poneva di fronte al primo vero dubbio esistenziale: pronto… a cosa?

Ci sono domande che aprono porte e altre che alzano muri. Quella, invece, costruiva ponti: da una parte ciò che ero, dall’altra quel che sarei stato e in mezzo un punto di domanda, una linea di frontiera oltre la quale – ancora persi allo sguardo – i sogni, i progetti e le speranze a cui legare un destino. La vita, in seguito, mi avrebbe insegnato che pronto non lo sarei mai stato: non al primo bacio, non alla felicità, non a quel treno che “l’avessi preso”, né alla morte di mio padre. Nel frattempo ho vissuto: ho chiuso porte e abbattuto muri, ho cercato, ho perso, ho trovato. Ma quel ponte è ancora lì, a indicare un cammino, un orizzonte, una possibilità.

Quella notte la trascorsi insonne. Come i miei nonni, che la storia di Ustica proprio non riuscivano a capirla: come può un aereo cadere senza motivo? Fu allora, nel silenzio di un letto ancora troppo grande, tra i ricami di una timida penombra che la notte stellata disegnava sul soffitto, che cercai per la prima volta quelle risposte che solo il tempo mi avrebbe insegnato.

Oggi so che il contrario del dubbio non è la certezza ma l’indifferenza, che per certe cose non si è mai pronti e che la vita capita, semplicemente, ed è così che va vissuta. Poiché – ha ragione Charlie –  “a volte le cose sono proprio come sembrano, ecco tutto”. 

Massimo Fragassi

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