«Italy is a beautiful country!». L’eterno dilemma tra restare o partire

by Roberto Pertosa

Italy is a beautiful country!

Lo ha appena detto un turista americano seduto al tavolo di fianco al mio.

Lo sento dire spesso, anche fuori dall’Italia. E ogni volta mi chiedo quali siano i modelli analizzati (che non risultino prettamente estetici, e anche in tal senso ci sarebbe comunque qualcosa da dire), tali da giungere a queste categoriche valutazioni, da coloro che guardano dall’esterno, dai visitatori di una sola volta, e che probabilmente non torneranno mai più.

E ogni volta, con maggiore frequenza e insistenza, mi chiedo, assalito dal dubbio di non aver capito nulla, se valga la pena restare per sempre in questo “beautiful country”, e se per tale scelta ci voglia una maggiore dose di coraggio rispetto a quella necessaria per scappare via.

Certo, è un’antica questione.

In realtà io possiedo già una risposta perché ho già affrontato tale problematica, ma il desiderio di “tornare”, e non solo sporadicamente, di dare il mio contributo, si contrappone spesso all’egoistico potere terribile della rinuncia, di chi si avvicina inesorabilmente alla terra.

Infatti, noi ci muoviamo sulla base di narrazioni che integrano e nutrono ciò che ancora non ha consistenza. Un bambino nella sua stanza al buio teme che sotto il letto ci siano le sue peggiori paure, e per questo chiama i genitori. Il più delle volte basta accendere una lampadina per guardare la vera realtà, ed eventualmente cominciare a inventare il futuro che manca, e scappare non serve.

Ma a volte, accesa la luce, si scopre che non si tratta solo di paure, ma di ostacoli che non tutti sono disposti ad affrontare solo per amor di patria. E andare via può essere la scelta migliore.

La distanza siderale tra le politiche giovanili del lavoro in Italia rispetto a quelle del resto d’Europa, oltre alla consapevolezza che la nostra economia è ormai ferma da anni, non può autorizzarci ad affermare che bisogna a tutti i costi restare, accusando di egoismo chi se ne va pur avendo la possibilità di rimanere.

Ma restare è davvero un atto rivoluzionario, è davvero un gesto di coraggio? O è solo l’ennesimo modo per non rischiare di cambiare lo stato delle cose in cui, bene o male, ci siamo abituati a vivere?

Nascere al Sud ci fa portare inevitabilmente in grembo l’anima del migrante. Questo ci pone in un continuo stato conflittuale di amore e odio per la nostra terra.

C’è sempre il mare nei ricordi, e la luce e l’aria dei luoghi del sud nelle nostre narrazioni, che sono “le cose che ci mancano di più quando siamo lontani”.

Ma i piedi ben piantati nelle proprie origini spesso non impediscono di guardare altrove, nonostante in Italia vi sia un’incapacità di guardare alle tradizioni senza nostalgia, e di volgerle al futuro verso un contesto più competitivo. Questo però non avviene senza scontri e difficoltà, e la grande sfida culturale è mettere in discussione tali tradizioni per farle evolvere e anche contaminare.

Qualche giorno fa due cari amici che vivono a Bologna mi hanno chiesto, in funzione di una mia ipotetica conoscenza del contesto, se valesse la pena di tornare, costretti alla partenza, a dire il vero per necessità, e con l’eterna speranza di poter rientrare un giorno alla prima occasione utile. E ho moltissimi amici che hanno “deciso” di andare, e che da sempre affermano che il vero coraggio starebbe nel restare e cercare in qualche modo di cambiare le cose da dentro.

Ad ogni modo, per la gran parte di loro andare fa rima con rinunciare. Rinunciare al proprio Paese, alla propria famiglia, rassegnarsi e scappare da qualcosa che però non sopportano più.

Ma per tutti loro non è facile andare via e lasciare tutto quello che con fatica si è costruito negli anni, per dover ricominciare da capo, lontano dagli affetti.

E, allo stesso tempo, non è facile accettare che il tuo Paese non abbia nulla da offrirti, che ti soffochi, e che ti stia sottraendo inesorabilmente il tuo futuro.

Ma non è facile decidere neanche di restare, di dare una nuova ed ennesima chance al tuo luogo d’origine, di accontentarsi di una routine che ti toglie l’aria, dei soliti eterni e irrisolti discorsi, di un futuro che non è mai futuro. Perché mentre il tempo passa, e tu non fai nulla per cambiare lo stato delle cose, capisci che il rischio più grande è quello di dimenticare i tuoi sogni e di rinunciare a quello che sei.

Quindi, il vero coraggio sta nella scelta. Qualunque essa sia. Il vero atto di coraggio è quello di prendere una posizione, perché l’atto più coraggioso è proprio questo.

Se scelgo di restare o di andar via sarà per un fine ben preciso, che sia la ricerca di una felicità condivisa o per investire su di sé continuando a lavorare ogni giorno sulla propria felicità. In entrambi i casi, dovunque io sia, avrò dato un contributo all’evoluzione delle mie origini.

Si tratta di una decisione che va presa personalmente, nessuno può percorrere il nostro personale cammino, nessuno può immedesimarsi completamente nelle nostre circostanze perché la conoscenza più profonda delle stesse, nella maggior parte dei casi, è solo personale.

Quindi, andare o restare? Non troverete qui la risposta, e io non ve la darò.

È una scelta personale che deve coinvolgere aspetti emotivi e razionali. Al di là delle ambizioni o della necessità, spesso viene infatti sottovalutato l’impatto emotivo e relazionale dell’andare via, rimandando problematiche personali, svincolate dal luogo, e affidandole puramente al caso.

Ma a volte anche la fuga può essere una semplice illusione. Alcuni ce la fanno, alcuni tornano delusi, altri cominciano carriere molto accidentate che bisogna a tutti i costi farsi piacere, altri ancora vorrebbero tornare ma quello che hanno studiato spesso non è spendibile in un sistema autoreferenziale come il nostro.

Ma ci sono anche moltissimi che restano in Italia e costruiscono i loro progetti con pazienza, sacrificio e impegno.

La libertà di mobilità lavorativa è un valore, in un mondo globalizzato ormai senza frontiere. In condizioni normali tale libertà di scelta sarebbe logica e ineccepibile. Ma se l’Italia fosse un paese normale, se marciasse come gli altri paesi europei, se non notassimo alcuna anomalia, alcuna crisi sistemica delle ultime generazioni, tutti avremmo il libero arbitrio, talentuosi o no, nella ricerca della nostra strada personale, inseguendo i nostri sogni.

Ma l’Italia non è un Paese normale, e l’emigrazione è troppo spesso una fuga disperata e quasi mai una scelta volontaria.

Ma con questo non affermerò che chi ha la possibilità deve restare in Italia per resistere e per combattere affinché tutti gli altri non debbano fuggire. Non posso certo affermarlo.

Non posso affermare che chi parte per l’incapacità del Paese di assorbire il loro talento e le loro competenze è un egoista. Che pur potendo “sopravvivere” restando, decide e sceglie di andar via a prescindere, di donare il proprio sapere altrove, a chi lo merita. Questa non è affatto un’azione egoistica, e dunque noncurante di ciò che si lascia alle spalle, ma un sentimento assolutamente legittimo, anche nel caso in cui si parta e basta, senza preoccuparsi delle problematiche o esigenze del proprio Paese, facendo scelte individuali apparentemente svincolate dal bene della collettività, per perseguire i propri interessi personali.

La fuga non è affatto un atto individuale, e la resistenza non è per principio una scelta collettiva.

Per cui tutti hanno il diritto di fuggire, e a nessuno si può negare di restare.

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