La cagnolina in camicia

by Raffaella Passiatore

Era la notte del 31 ottobre, una notte fredda e particolarmente buia malgrado la luna piena. Nuvole sfilacciate -eppur dense- coprivano lo splendore lunare.

Solo brevemente, a tratti, i raggi della luna riuscivano a sgattaiolare di tra le lamelle di quella immensa persiana scura abbassata sul mondo.

I tre bambini della famiglia Dionigi erano stati messi amorevolmente a letto dalla loro mamma. Flavio e Giovanni, il primo ed il secondogenito, avevano avuto difficoltà ad addormentarsi avendo, uno dopo l’altro, sofferto nei giorni precedenti di un ostinato prurito alle spalle ed al petto. Era iniziato come una specie di solletico, poi era mutato in un pizzicorino insistente, un bruciorino insolito. La mamma si era preoccupata, aveva pensato subito alla varicella, ché il morbillo i bambini l’avevano già avuto e contro la scarlattina erano stati vaccinati. All’insistere del disturbo, il babbo aveva chiamato il vecchio dottor Brambilla che era immediatamente intervenuto. Al Brambilla piaceva molto fare visite a domicilio. Trattandosi di un piccolo paese con una popolazione alquanto sana, il vecchio dottore aveva tutto il tempo di non far scomodare i suoi pazienti ed invece farsi delle piacevoli passeggiatine col suo cane. Il dotto Brambilla ed il suo cane Tobia si assomigliavano molto. Tobia era uno di quei cani rughosi apparentemente più soggetti degli altri quadrupedi alla forza di gravità. Tutto in Tobia tendeva verso il basso: le lunghe orecchie, le palpebre, i lembi slabbrati del muso, la pelle della pancia e le grosse zampe che, a fatica, come pesassero tonnellate, sollevava da terra in passi grevi. Solo la coda appariva libera da quella generale e forzata indolenza, dovuta più all’età matusalemmica che al carattere. Ed infatti era la coda a rivelare la natura socievole di Tobia che, appena incrociava un essere umano, iniziava a sballonzolare instancabile a destra ed a sinistra.  Tobia ed il dottor Brambilla erano tutt’altro che sovrappeso, tuttavia quella massa di pelo cadente -nel caso del cane-, gli conferiva un’aria tarda ed un’andatura pesante. Se Tobia si estendeva in lunghezza, ecco invece che  il dottor Brambilla si allungava in altezza con un incedere dinoccolato che lo facevano sembrare uno spaventapasseri. Insomma, i due risultavano una coppia bizzarra ed un tantino sghemba.

Il Dottore aveva visitato proprio quel pomeriggio Flavio e Giovanni: «Flavio, respira come una pietra!»

«Ma Dottore, le pietre non respirano mica!»

«E allora tu non respirare, trattieni il fiato!» Gli diceva auscultando il petto con lo stetoscopio.

«Giovanni, respira come un pesce fuor d’acqua!»

«Ma Dottore, i pesci fuor d’acqua non respirano mica!»

E così, il dottor Brambilla fece un’accurata visita ai bambini senza trovare nulla di anomalo, nemmeno un accenno di orticaria, parassiti o allergia.

«Stia tranquilla, Signora,» Disse il dottore alla mamma «i bambini sono sani come due pesciolini nell’oceano, non hanno nulla che non vada, credo che il disturbo sia di origine psicogena».

«Che significa?» Chiese la mamma sgranando gli occhi.

«Significa che attraverso il prurito stanno forse manifestando un disagio emotivo. È successo qualcosa negli ultimi giorni? Li avete sgridati? Un brutto voto a scuola? Una visita spiacevole?»

La mamma abbassò gli occhi e ci pensò su qualche secondo. « No, no, non che io sappia…»

Disse poi inchiodando i suoi bellissimi occhi blu sul dottore.

«Allora stia tranquilla, sarà qualcosa di passeggero. Intanto li cosparga di talco al mentolo, usi soltanto camiciole di lino, niente tessuti sintetici o colorati. Vedrà che in capo a qualche giorno cesserà tutto. La piccolina come sta?»

«Benone, Nicoletta non ha lamentato alcun disturbo».

«Se anche la bambina dovesse dolersi di qualcosa non esiti a mandarmi a chiamare».

«Senz’altro dottore!»

Tutta questa conversazione era stata origliata dietro la porta proprio da Nicoletta, la terzogenita, e dalla sua cagnetta Mera. Nicoletta si era sempre sentita esclusa dai giochi dei suoi due fratelli maggiori. Che giocassero agli indiani, a guardia e ladri o alla play station, Nicoletta veniva regolarmente esclusa per due motivi; era troppo piccola ed era una femmina. Così i genitori, per ovviare ai pianti e alla frustrazione di Nicoletta, le avevano comprato un cucciolo Golden Retriever, a cui era stato messo il nome di Mera. La bambina e la cagnetta erano diventate inseparabili, scatenando le gelosie di Flavio e Giovanni.

Nicoletta non capì bene cosa intendesse il dottore ma di una cosa si convinse; i suoi fratelli non avevano nulla di grave, la qual cosa non le provocò sollievo avendo invece sperato in una qualche brutta malattia che punisse i suoi fratelli della loro malevolenza.

Il Dottor Brambilla salutò con un gesto della mano la famiglia stretta sulla porta di casa, mentre Mera abbaiò tre volte per prendere commiato dal vecchio Tobia che rispose con un bofonchiare basso ad intermittenza.

«Che simpatico, quel Tobia!»Pensò Mera la cagnetta.

Circa la malattia dei bambini Mera era sospettosa, qualcosa non la convinceva infatti, le sere precedenti, aveva avvertito strani rumori provenire dalla cameretta di Flavio e Giovanni ed un odore…un odore…come spiegarlo agli umani ? Mera aveva fiutato un aroma come di gesso misto a carbone e le sue orecchie avevano percepito brevi e leggeri scivolii, poi uno zufolìo sottile, prima più lento e poi sempre più veloce ma in diminuendo. Purtroppo, di notte, Mera veniva chiusa nella cameretta di Nicoletta e così non aveva potuto andare a vedere cosa stesse succedendo nella camera degli altri due fratelli. Aveva provato ad abbaiare ma Nicoletta le aveva ordinato di tacere per non svegliare papà e mamma; in nessun caso Nicoletta voleva rischiare per punizione che le portassero via la sua adorata cagnetta !

Torniamo a quella notte del 31 ottobre. Dopo la visita del dottore, Mera aveva deciso di tenere orecchie ed occhi più aperti del solito. Quella notte era particolarmente buia e fredda così Mera sonnecchiava arrotolata a ciambella sulla sua cuccia imbottita, accanto al termosifone. D’improvviso riconobbe l’odore che aveva sentito provenire dalla camera dei fratelli di Nicoletta, questa volta più intensamente; evidentemente qualcosa stava accadendo e proprio in quella stanza, nella stanza di Nicoletta!

Scattò in piedi, allungò il muso per fiutare meglio e fissò davanti a sé, proprio in direzione del lettino della bambina. Un raggio lunare penetrò dalla finestra e Mera indietreggiò dallo spavento : una sagoma enorme e scura era china sul letto della sua bambina! Mera ringhiò, quanto più minacciosamente sapeva fare, imitando i cani adulti che aveva conosciuto nella sua breve vita. La sagoma ebbe un sussulto, incassò la testa nelle spalle e si voltò. Due orrendi occhi rossi lampeggiarono e un ghigno lasciò scoperta una fila di denti enormi. Mera si fece coraggio e, digrignando i denti, si fece avanti. Anche la sagoma si fece verso Mera, pareva più sorpresa che intimorita, il ghigno si tramutò in un sorriso. La sagoma si abbassò, si chinò fino ad inginocchiarsi. Quindi, molto lentamente, stese la mano verso Mera.

«Buonasera Mera ». Disse una voce roca e metallica in perfetto idioma canino.

«Come sai il mio nome? Perché parli la mia lingua?»

«Io parlo tutte le lingue del mondo, anche quelle degli animali».

«Anche la lingua dell’ornitorinco?»

«Sì ».

«Anche la lingua della scimmia dal naso a patata?»

«Si dice: Scimmia dal naso camuso, sì anche quella ».

«Anche la lingua dell’orcella asiatica?»

«Quella è una della più difficili ma sì, conosco anche quella ».

«Anche la lingua della lamprede?»

«La lamprede è priva di mascelle, ho dovuto imparare la sua lingua fatta di segni di coda e di lingua. Per le consonanti usa la coda e per le vocali la lingua. Se una frase è interrogativa schizza un pochino di viscidume dalla pelle. In effetti è un idioma parecchio anomalo…»

«Ma allora le parli proprio tutte tutte!»

«Sì.Tutte».

«Ma come hai fatto ad impararle tutte?»

«Sono immortale, quindi ho avuto tempo di studiarle».

Alla parola immortale a Mera si drizzò il pelo sulla groppa.

«Chi sei ? » Abbaiò Mera, declinando l’invito carezzevole della mano.

«Abassa la voce, tanto non ti servirà a nulla, nessuno in questa casa si sveglierà stanotte, ho gettato su tutta la famiglia la malìa del Babafáru, fino a domattina non si veglieranno. E nemmeno la tua padroncina si sveglierà, ed io sono qui proprio per lei, stasera».

«Chi sei ? Che cosa vuoi? Non ti avvicinare alla mia padroncina altrimenti ti mordo!»

«Io sono il Sarto, il Sarto Immortale e, se non ti dispiace, mentre chiacchieriamo, vorrei continuare a fare il mio lavoro. Non ti preoccupare, non farò del male alla tua padroncina».

Detto questo, il sarto immortale si sollevò da terra, aprì una borsa e ne estrasse un metro a nastro che allungò su corpo di Nicoletta addormentata. Mera si avvicinò per controllare che quel Sarto stesse dicendo la verità.

Lo spilungone appoggiò il metro a nastro intorno al collo della bambina, poi lungo le braccia; dalla spalla al polso; dal collo alla vita, insomma sembrava un qualsiasi sarto che prende le misure per confezionare un vestito.

«Ma cosa vuoi fare?»

«Cucirò stanotte una camicia anche per Nicoletta, come ho fatto le sere precedenti per i suoi due fratelli. Sono già abbastanza in ritardo in questa famiglia…»

Quindi con un gessetto disegnò delle linee su una grande tela bianca accuratamente stesa sul pavimento. Era una tela più sottile della carta velina, più impalpabile dell’ala di una farfalla, più diafana della tela di un ragno. Tirò fuori dalla borsa delle grandi forbici; erano delle forbici enormi e non si capisce come facessero a starci in una borsa che era più piccola della lorò metà! Tagliò un margine della stoffa e poi, facendola scivolare tra le fauci aperte della forbice, separò il pezzo segnato col gesso dal resto della trama. Mera riconobbe quel suono ; come una scia che fende l’acqua.

«Una camicia per Nicoletta? Ed a cosa serve? La mamma di Nicoletta le compra dei vestiti bellissimi, la nonna le tesse maglioni ai ferri di lana d’angora, la mia padroncina non ha bisogno dei tuoi servigi, e poi chi ti ha chiamato? Noi una sarta ce l’abbiamo già!»

«Vedi Mera, nessuno può confezionare una camiciola come questa. La stoffa è fatta di Spazio e il filo di Tempo… Il mio compito è tagliare, cucire una camiciola su misura per ogni essere umano, su questo indumento è scritto il destino di ognuno, il giorno e le modalità della loro morte».

«Ma è terribile ! Perché fai una cosa del genere ?»

Il sarto, che parlava lavorando, aveva infilato in un ago tutto d’oro un filo lucente, come un finissimo raggio di luna, che penetrò nella cruna mandando uno scoppiettante sfavillio.

Il sarto si fermò e si girò a guadare Mera. Di nuovo i suoi occhi ebbero un lampo di fuoco e Mera rabbrividì.

«Perché faccio una cosa del genere, mi chiedi? Gli esseri umani dovrebbero essermene grati! Io gli dono un destino da realizzare, una vita che abbia un senso ed una fine prestabilita. Immagina cosa sarebbe l’esistenza umana in una totale indeterminatezza, una assoluta casualità del divenire e della morte. Che senso avrebbe?»

«No. Non è come tu dici ».

Il Sarto Immortale ebbe un moto di stizza, storse la bocca, quindi prese due spilli, li infilò tra le labbra, accavallò due lembi della stoffa di Spazio con le mani, quindi li richiuse fermandoli con gli spilli. Sospirò, appoggiò la camicia tagliata su qualcosa che Mera non vide. Di fatto sembrava aver appoggiato l’abbozzo di camicia per aria, ma questa vi restava stesa ed immobile come se il sarto l’avesse appoggiata su un tavolo. A questo punto il sarto immortale si volse verso Mera.

«Vieni, vieni qui, cagnetta ribelle !»

Mera ci pensò un attimo. Poi, suo malgrado, iniziò a scodinzolare, fu come un riflesso incondizionato, si avvicinò ed abbassò la testa mentre il Sarto la accarezzava amorevolmente.

«Ho capito, stasera farò tardi. Allora, Mera, spiegami perché secondo te non è giusto quello che dico». Mera si mise seduta e diede una leccatina al sarto.

«Vede Signor Sarto, se Nicoletta non avesse già un destino segnato sulla sua camicia, potrebbe essere libera, ovvero decidere cosa fare della sua esistenza, e magari anche decidere come e quando morire. Proprio come noi animali che la camicia non ce l’abbiamo ».

«Ah ah ah, eccola qui, la storia del libero arbitrio!»

Mera non capì veramente cosa fosse il libero arbitrio, quella parola era difficile e lei, ancora troppo giovane, non l’aveva mai sentita. Il Sarto continuò: «Quindi tu credi che le scelte di ognuno siano più determinanti del caso? Dimmi, Mera, se per caso Nicoletta non ti avesse scelto all’allevamento, che cosa sarebbe stato di te? Forse ti avrebbe comprata una padrone cattivo, così avresti passato il resto della tua vita attaccata ad una catena a fare la guardia ad un cortile. Oppure un altro padrone sconsiderato ti avrebbe abbandonata in un agosto infuocato sull’autostrada del sole e saresti morta investita da un’automobile. Tu non hai deciso un bel niente! Hai subito la scelta di altri, o forse la sorte e, per tua grazia, ti è andata bene e sei stata fortunata ma, merito tuo, proprio non è! O vuoi forse convincermi che hai deciso tu della tua vita? Che Nicoletta ti abbia scelto non è stato forse solo un caso?»

«No, non è stato un caso. Io mi sono sforzata di fare gli occhi dolci, e poi le ho leccato subito le guance ed il collo, se Nicoletta ha scelto me è anche merito mio».

«Ma avrebbe anche potuto scegliere un altro cane! Oppure sarebbe potuto succedere che durante la visita di Nicoletta tu non fossi stata presente o, ancora, che Nicoletta fosse andata a cercare un cucciolo in un altro allevamento. Vedi? Le possibilità sono praticamente infinite. Senza un destino l’esistenza degli esseri umani è in balia del caso, ovvero del non sens».

«Si, avrebbe potuto essere tutto quello che dici, ma almeno io avuta l’occasione, ho tentato. Se avessi saputo che il mio destino era già scritto, allora non avrei fatto proprio nulla, non farei anche in futuro assolutamente più nulla, tanto a che cosa servirebbe se è già tutto prestablito?»

«Ed infatti gli umani non sanno di me e nemmeno della camicia con il loro destino scritto addosso! Loro pensano di essere liberi !»

«Scusa Sarto, ma allora sei proprio un falso ! Che senso ha ingannarli?»

«Non li inganno, l’illudo, è diverso. Comuque cara Mera, purtroppo non ho tanto tempo per stare qui a discorrere con te, devo finire la camicia di Nicoletta e mi aspettano stanotte ancora tanti bambini. Questa è la legge, mi dispiace, non posso fare eccezioni. È così e basta».

Detto questo, il Sarto Immortale in quattro e quattr’otto aveva cucito la camiciola. Tirò fuori, sempre dalla valigetta, un ferro da stiro al cui interno ardevano delle piccole stelle. Dette una sbattutina alla camiciola e poi la tenne tesa davanti a sè prendendola per le spalle e parve compiacersi del suo lavoro poiché gli brillavano gli occhi. Mera trovò quel brillio ancora più inquietante del lampo di poco prima. Il sarto Immortale adagiò la camiciola come ci fosse un asse invisibile e poi la stirò pronunciando parole incomprensibili.

«Che cosa stai dicendo?» Saltò su allarmata Mera.

«Stiro sopra la camiciola il destino di Nicoletta».

«Sarto, allora, ti prego di cucire una camicia anche per me».

«Cosa? Una camicia per te? E perché ne vuoi una anche tu?»

«Voglio che mi cuci una camicia uguale a quella di Nicoletta, così il nostro destino andrà di paripasso, sarò felice quando lei sarà felice, sarò triste quando lei sarà triste, starò sempre con lei e morirò con lei».

Dagli occhi del Sarto questa volta brillò qualcosa d’argenteo, come due lune s’accesero nell’occulto del suo sguardo. Mera si sentì ancora accarezzare sulla testa e ne seguì una di quelle grattatine sul dorso che le piacevano tanto.

«Va bene, Mera, sei un cane devoto ed intelligente, ti accontenterò ».

Detto questo il Sarto Immortale in quattro e quattr’otto tagliò e poi cucì, con l’ago d’oro ed il filo luminoso, una camiciola con quattro  maniche anche per Mera. Infilò quindi con molta destrezza la camicia a Nicoletta senza svegliarla e poi si avvicinò alla cagnetta.

«Ecco qui, Mera, vieni, infilala anche tu».

«Sarto, mi prometti che il mio destino impresso sulla camiciola è identico a quello di Nicoletta?»

«Te lo prometto».

«Giura! » Insistette Mera con uno sbuffo. Il Sarto mise la mano destra sul cuore ed alzò la sinistra: «Lo giuro!»

«Dà molto prurito?» Chiese poi Mera guardando la camiciola con preoccupazione.

«Oh, solamente per qualche giorno, poi passa…Una volta indossata, la camiciola diventa all’alba invisibile. Comunque non preoccuparti l’ho tagliata bene, non ti darà alcun fastidio». Disse il sarto mentre infilava la camiciola a Mera.

« Grazie!» Abbaiò Mera ammirando lo sfavillio della camicia, sembrava che tutto il suo corpo fosse addobbato di stelle natalizie.

«Allora ti saluto, Mera». Disse il Sarto raccogliendo gli strumenti da lavoro ed infilandoli in grandi tasche del grembiale e nella minuscola valigetta.

«Addio».

«Addio». Disse il Sarto Immortale facendole l’occhiolino, poi si avviò verso la finestra chiusa e, misteriosamente com’era entrato, scomparve.

Mera si avvicinò alla finestra per controllare che il Sarto se ne fosse veramente andato. Annusò per bene il davanzale e la maniglia, quando non sentì più l’odore del Sarto Immortale si avvicinò al lettino di Nicoletta e, facendo attenzione a non svegliarla, a piccoli morsi si mangiò tutta la sua camicia. Il sapore era dolce, si scioglieva in bocca come lo zucchero filato. Mera lo sapeva che sapore aveva lo zucchero filato e che effetto faceva sul palato! Una volta Nicoletta, al Luna Park, gliene aveva fatto assaggiare un pezzettino.

Quando Mera ebbe finito di mangiare la camicia di Nicoletta era già parecchio sazia, tuttavia si strappò a morsi anche la propria e s’inghiottì pure quella.

Con la pancia piena di due destini identici ma sconosciuti, si accucciò sul letto ai piedi della sua padroncina e s’addormentò felice.

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