La cultura dello sproloquio

by Vito Alberto Lippolis

Michela Murgia è l’intellettuale italiana più influente oggi: è bravissima, sa stare ovunque e ovunque sta bene. Dice la cosa giusta e fa diventare quello che dice la cosa giusta. Nasce blogger, cresce scrittrice, si reincarna podcaster, conduttrice radio, saggista, editorialista, presenza festivaliera: Murgia è tutto. Anzi, come ha titolato il Foglio mesi fa: Murgia, misura di tutte le cose.

Murgia è un po’ il nostro Protagora: quello aveva la sua buona flussontologia eraclitea, lei ha il web. Lui si rifiutava di pensare al mondo e voleva pensare all’uomo, lei si rifiuta di pensare all’uomo e vuole pensare alle donne e agli uomini, uno per uno, senza concetti né generi né specie, trattando solo gli individui, al massimo alle identità.

Così succede che Murgia si mette a fare un bel podcast: è bravissima, fa questo podcast “Morgana”, una roba che anticipa le bambine ribelli, che batte sul tempo “The C-word” di Lena Dunham, che diventa un fenomeno di costume, un libro, un mondo (chissà, magari un domani ci sarà anche un “Morgana: il film”, che bello sarebbe.) 

Morgana, insomma, è una collezione di ritratti di donne, una roba interessante su donne interessanti. Però.

Però a controllare le presenti e le assenti si nota subito che mancano un sacco di donne tradizionalmente presenti in queste liste: manca Capucine, manca Sylvia Plath: mancano le suicide.

A smanettare un po’ la risposta la si trova presto, dalla bocca della stessa Murgia, in un video promozionale risalente all’estate scorsa (ma anche in altre occasioni): non si parla di suicide perché gli psicologi pensano sia meglio non far entrare il suicidio nel discorso pubblico.

La posizione potrebbe essere facilmente mal interpretata: Murgia sta cercando di dirci che le donne meritano di essere raccontate solo quando esemplari? Tutte di nuovo Irma Bandiera e tutte di nuovo Maria Goretti? 

No, la spiegazione è più semplice: gli psicologi sconsigliano di parlare di suicidi e di suicidio in contesti non controllati perché notano che parlare di suicidio rende l’idea di togliersi la vita una possibilità molto più vicina, immaginabile, tangibile per chi ascolta. Chiunque si sia interessato a come funzioni la famiglia come organismo sa che nelle famiglie il suicidio si propaga di generazione in generazione: sarà più probabile che a suicidarsi sia il figlio di un suicida che il figlio di un non-suicida. È roba di genetica? No, semplicemente sapere che non solo esiste una cosa chiamata ‘suicidio’, ma che quella cosa l’ha fatta la nonna renderà il suicidio un’eventualità molto più facilmente pensabile e, in definitiva, attuabile che se fosse stato altrimenti.

Non parlare di Sylvia Plath in un podcast come Morgana può sembrare una roba da puritanesimo à la Norman Rockwell (e forse lo è: Norman Rockwell però è morto di enfisema ormai ottuagenario, magari qualcosa ce la può insegnare), ma, a guardar bene, è semplicemente il frutto della premura di una podcaster intelligente e responsabile nei confronti dei propri ascoltatori.

Ecco, però, poi succede altro: nella reincarnazione da editorialista, Murgia sembra improvvisamente scordarsi che il suicidio è un tema che impone attenzione sottilissima. Pure Camus lo diceva, nel “Mito di Sisifo“: vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Murgia lo sa, lo sa, lo sa. 

Allora perché Murgia, ieri, si prende la briga di scrivere un pezzo come quello sul padre suicida-omicida di Torino? Perché Murgia deve andare, tra un podcast e un festival, a cercare il profilo Facebook di un tizio qualunque, perché deve prendere l’ultimo post del tizio e perché deve fare di ciò — un discorso intimissimo e personalissimo pur nel suo essere pubblico — l’emblema di una «cultura del possesso»? 

Perché Murgia crede di poter dire ai suoi lettori: vedete? Era un criminale, lo diceva anche lui; vedete che logica criminale c’è dietro? La celebre logica dei suicidi, già.

Murgia parla e misura, ma Murgia non sa. 

Murgia è un’intellettuale e parla bene di cose che sa male.

Murgia non è Alan Bennett, non è il più grande commediografo vivente, non è il figlio di una depressa.

Se Murgia fosse Alan Bennett, allora saprebbe. Saprebbe che le vite di ciascuno, nonostante tutto, sono vite come tante: vite storte e nodose e impossibili, a volte, da raddrizzare. Vite che ti fanno desiderare — desiderare, chiedere, difendere — l’elettroshock, pur di provare ad alleviare il dolore di tua madre. Vite che fanno un male cane e che, in certi momenti, non sembrano neanche vite umane. Vite che Murgia non conoscerà mai

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