La mostruosa colpa della felicità

by Enrico Ciccarelli

“Li ho uccisi perché erano troppo felici”. Questa la frase del presunto probabile assassino dei fidanzati di Lecce. Una motivazione che sgomenta e induce all’orrore, certamente; e che tanti eleggono a prova regina del delirio allucinatorio dell’omicida, della sua disconnessione sanguinaria, del crollo psicotico che ha determinato la sua azione. Ora, fermo restando che l’annientamento di un proprio simile è necessariamente folle, sia dal punto di vista antropologico che da quello socioculturale, temo che questa motivazione, se confermata, sia pienamente allineata con lo spirito dei tempi, ne sia addirittura quintessenza.

Perché l’Italia del rancore fotografata dal Censis (ma la diagnosi si attaglia pressoché a tutte le società occidentali) è costruita sull’alibismo e sulla totale deresponsabilizzazione degli individui. E se i sociologismi d’accatto di un tempo, quelli che davano alla società la colpa di ogni possibile stortura, funzionavano per irredentismi, per categorie, per classi, oggi facciamo i conti con un vittimismo di stampo tatcheriano: non è il mio ceto, il mio territorio, la mia generazione ad essere vittima di emarginazione e di diseguaglianza. Lo sono io, nel mio destino individuale, che non sa più connettersi con alcuno, se non per aggregazioni effimere, testimonianze identitarie approssimative, branchi imperfetti e momentanei.

Il rancore per i felici e i ricchi, per i talentuosi e i colti, per gli affermati o anche solo per gli attivi è la naturale conseguenza di un mood culturale che detesta il dinamismo, l’evoluzione, la vita stessa; il paradigma di una società che non si aspetta nulla dall’avvenire e sta in contemplazione del proprio disfacimento.

Inutile cercare un lavoro se non si hanno raccomandazioni; stupido provare a esprimere idee, perché te le ruberanno; illusorio coltivare un’inclinazione, perché nessun talent ti prenderà se non conosci qualcuno. Quante ne avete sentite di queste colonne sonore della penombra? Nei miti diventano rassegnazione plumbea, negli animosi livore, invidia, odio cieco.

Certo, chi odia i felici non sa in che consista la felicità, che per solito identificano con una sorta di vacua allegria e di leggerezza un po’ inconsistente. Fra le molte cose che ignorano c’è il significato della parola felicità, della sua radice, della sua genesi. Felix, in Latino, vuol dire fecondo. È felice ciò che fa nascere, che genera, che procrea: figli, sogni o mondi che siano.

L’odio degli infelici, che simmetricamente significa sterili, inani, indifferenti, è quindi scontato, come si addice a “due razze in antica tenzone” (cit.). L’assassino immaginava di trovare nel suo atto, compiuto a freddo quindi lungamente premeditato e rimuginato, una qualche forma di soddisfazione. E non è escluso che ci sia riuscito, in questi giorni in cui viveva nell’umano consorzio senza ormai esserne più parte.

Chissà quanto durerà questa ennesima illusione consolatoria; quanto tempo ci metterà ad accorgersi che i colpi inflitti a due ragazzi che avevano la mostruosa colpa di essere felici (e chissà mai se lo fossero davvero, perché all’odio non serve la cognizione di causa, bastano le impressioni e le percezioni) erano in realtà diretti a lui stesso, erano l’espressione del disprezzo profondo che gli infelici del suo tipo, quando cala la sera, sono costretti a provare per se stessi.

Siccome non siamo giudici, e siccome la condizione umana dovrebbe conoscere sempre, in parti mutevoli, sia la felicità che l’infelicità, gli auguriamo giunga a comprendere, nelle sue letture (già, perché il fetido protagonista di quest’opera di macelleria ha letto libri, e più d’uno. Incredibile (a pensarsi!) questa luminosa poesia di Wislawa Szymborska, le cui poesie esprimono la fecondità (e quindi la felicità) in modo impareggiabile. Si intitola “Un amore felice” e ve la propongo anche per togliervi di bocca il saporaccio che vicende come questa lasciano.

UN AMORE FELICE

Un amore felice. E’ normale?

è serio? è utile?

Che se ne fa il mondo di due esseri

che non vedono il mondo?

Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,

i primi qualunque tra un milione, ma convinti

che doveva andare così – in premio di che? Di nulla;

la luce giunge da nessun luogo

perchè proprio su questi, e non su altri?

Ciò offende la giustizia? Si.

Ciò offende i principi accumulati con cura?

Butta giù la morale dal piedistallo? Si, infrange e butta giù.

Guardate i due felici:

se almeno dissimulassero un po’,

si fingessero depressi, confortando così gli amici!

Sentite come ridono – è un insulto.

In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.

E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,

quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano

sembra un complotto contro l’umanità!

E’ difficile immaginare dove si finirebbe

se il loro esempio fosse imitabile.

Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,

di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,

chi vorrebbe restare più nel cerchio?

Un amore felice. Ma è necessario?

Il tatto e la ragione impongono di tacerne

come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.

Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.

Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,

capita, in fondo, di rado.

Chi non conosce l’amore felice

dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.

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