La nudità della morte

by Enrico Ciccarelli

L’umano dolore per la grave malattia e la morte incipiente di Michela Murgia, che priverà in un tempo penosamente breve la nostra letteratura di una grande penna e di un brillante ingegno (che come tutti i brillanti ingegni si caratterizza anche per uscite che sono o appaiono non condivisibili), non può separarsi dall’ammirazione per un coraggio senza pari. Per carità, viviamo in tempi di ostentazione social, in una società voyeuristica che spia dal buco della serratura amori e separazioni, amplessi e conversazioni. Una società intercettata senza costrutto, in cui l’enorme quantità di cose che “sappiamo” è inversamente proporzionale a quelle che capiamo.

Una società in cui la consapevolezza dell’esposizione e dell’intercettazione distorce e droga i comportamenti di ciascuno, nel quale un essere immondo che si candida addirittura a rappresentare una pur piccola comunità, si spinge ad auspicare pubblicamente i forni crematori per gli immigrati. In nome di un nuovo tipo di ferocia, agita non più dalla fede o dall’ideologia, ma dalla Dea Visibilità, dalla smania di ottenere il warholiano quarto d’ora di celebrità.
Ma in questa società dell’esposizione oscena, del triviale commercio dei corpi, delle anime, delle emozioni, c’è un tabù che resiste. È quello della morte, la cui invisibilità è stata fissata una volta per sempre da quel terribile corteo di camion carichi di bare in quel di Bergamo. La morte, l’Impensabile, la Spaventosa; quella che pensiamo di esorcizzare con i nostri paradossali applausi ai funerali, quasi che il defunto sia un attore tornato in camerino da richiamare in scena.
Ecco, Michela Murgia ha rotto questo tabù nell’unico modo possibile: mostrando la nudità della propria morte, mettendola in circolo nella propria vita, dandocela come testimonianza per quando toccherà a noi. “Amammo in cento l’identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra. Questo ricordo non vi consoli, quando si muore, si muore soli” ha cantato Faber sugli echi di François Villon, George Brassens e Jacques Brel. Michela Murgia, con impareggiabile ardimento di donna, ha cercato un modo, l’unico non morboso e necrofilo, di morire meno sola. E di lasciarci un promemoria per essere meno soli noi, in quel giorno certo dall’incerta data. Credo che sia, fra i molti, il maggior motivo di riconoscenza che abbiamo nei suoi confronti.

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