La violenza quotidiana. Tacere il marcio o sbatterlo in prima pagina?

by redazione

Due diverse ragioni si contrappongono nell’interpretazione e nel giudizio sulla comunicazione giornalistica di questi giorni che sta girando il coltello nella piaga dell’ansia della gente: tacere la valanga di delitti efferati, di violenza quotidiana – anche in famiglia – o urlare tutta la rabbia per questa cattiveria incomprensibile (per modo di dire) che ci spinge a credere perduta definitivamente la bontà, il rispetto della vita, la dignità di ogni essere.

Gli esperti – psicologici, criminologi, analisti dei comportamenti sociali – ben pagati per passare da un dibattito televisivo e l’altro, quasi sketch tra l’analisi di una portata del pasto chic e l’altra, sostengono che parlarne troppo significa autorizzare, nei soggetti a rischio patologico, l’imitazione, quasi a sostenere che si uccide per darsi un ruolo pubblico, una notorietà nefasta in una società che insegna ad apparire più che a essere.

Non credo che le madri assassine, i padri vendicatori, gli squallidi approfittatori dei minori, uccidano per diventare famosi: uccidono perché si è sconquassata la loro interiorità, non più o mai ancorata a valori forti ma nutrita da bisogni provvisori e avvelenati dal piacere a tutti i costi, dal vincere per vincere, dall’affermarsi per sopraffare.

Si uccide per soldi, per rabbia, per odio, per vendetta; si uccide e ci si uccide “per farla finita” con una vita che non è mai cominciata veramente ed è stata soprattutto un barcamenarsi tra gli istinti peggiori o banali della felicità tutta mia, senza dedizione per la felicità altrui.

Non credo che l’accettazione che in ogni caso il mondo possa essere “teatro di guerra” istituzionalizzato sia compatibile con il predicare la fame di pace di tutti gli uomini della Terra, soprattutto dei deboli di sempre e dei poveri di ovunque.

Non credo che le fedi religiose siano tali quando – disertando l’unanime e sempiterna visione dell’amore tra gli uomini – attrezzano eserciti, istruiscono guerrieri, inventano armi tanto “neutrali” da non scegliere chi uccidere, purché sia morte.

Non voglio credere che i giovani possano essere educati alla gioia impegnata di vivere senza insegnare loro che è una strada che prevede ostacoli, conquiste, anche qualche sconfitta. Credo, invece, che molti bulli stiano esercitandosi a diventare necessariamente capi per non essere costretti a essere eterni gregari; e non si accorgono – perché nessuno lo dice loro – che l’affermazione di sé è omogenea all’autorevolezza – non al potere o alla paura – che gli altri ti riconoscono.

Le Forze dell’Ordine sono seriamente preoccupate del diffondersi, nella Città, della microcriminalità, dell’abbassarsi continuo dell’età dei devianti. Incontri continui con il mondo della scuola segnano, a chiare lettere, il bisogno di concertare le forze di tutti, educatori in testa, per il recupero della legalità, stroncando i fenomeni prossimi alle gravi violazioni di legge: piccoli pestaggi, furterelli, distruzione di cose pubbliche, devastazione d’insegne e di giardini, mancanza di rispetto per i più deboli.

Ma proprio per questo clima irritato e irritante anche gli educatori sono sull’orlo di una crisi di nervi: se registriamo strane azioni di chi o taglia la lingua ai bambini, o piglia a schiaffi, o segrega in una stanza, abbiamo molte più notizie di marmaglie scolastiche che sfasciano i banchi, incendiano le aule, minacciano i docenti, non hanno più rispetto non solo delle regole della comunità scolastica ma della semplice vita del cittadino qualunque.

Tacere il marcio o sbatterlo in prima pagina? Sicuramente parlarne, discutere tra adulti e discuterne con i giovani. Parlarne per misurare l’intenzione degli adulti-educatori di volersi compromettere innanzi tutto diventando esempio positivo; per comprendere quanto, di questi atteggiamenti devianti dei giovani, sia un messaggio – sbagliato – per farci comprendere che hanno bisogno di aiuto, che sono infelici, che sono insicuri, che non hanno idee chiare sulla vita, sul mondo e su se stessi.

By Davide Leccese

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