L’Europa difficile (C’era una volta il Punt e mes)

by Enrico Ciccarelli

C’era una volta (e c’è ancora) il Punt e mes, la bevanda inventata a Torino dalla famiglia Carpano nel 1870, composta di due parti di vermut e una di china. Quel “punto di dolce e mezzo d’amaro” che fu reso celebre dalle pubblicità dell’immenso Armando Testa negli anni Sessanta.

Pensiamo che per molti Italiani sia l’unico Mes di cui avessero avuto finora nozione. E che quasi tutti si raccapezzino poco nella discussione sul Meccanismo Europeo di Stabilità, indicato da questo acronimo. Riguarda in genere tutto ciò che ha a che fare con l’Europa.

D’altronde lo si comprende benissimo: è sufficiente segnalare che non c’è, dalla materna alle superiori, una sola ora di insegnamento dedicata al funzionamento delle istituzioni europee. Il che non stupisce, considerando che non ne sa nulla almeno il 95% delle e dei docenti (ma forse è una percentuale stimata troppo ottimisticamente).

Questa diffusa misconoscenza si deve a due fenomeni distinti: il primo è che la ricorrente insorgenza dei nazionalismi, specie nelle nazioni ex-imperiali (segnatamente la Francia e la Gran Bretagna) ha impedito che l’Unione Europea si dotasse di una Carta Fondamentale e di quell’apparato di simboli (dall’inno alla bandiera) che oggi, un po’ come l’euro, esistono in modo monco, senza una sanzione ufficiale della loro esistenza o senza –nel caso della moneta unica- un “prestatore di ultima istanza” (ricordate che sulle vecchie banconote c’era scritto “la Banca d’Italia pagherà per questa banconota tot lire”?).

Il secondo è che la costruzione della più vasta aggregazione pacifica della storia umana, che ha fin qui distribuito dividendi straordinari in termini di pace, prosperità e benessere, è un processo di immane complessità, dalla lentezza talora esasperante e ha costi materiali e immateriali giganteschi. Non sarebbe più semplice, ad esempio, avere una sola lingua ufficiale anziché ventisette? Certo; il solo Parlamento Europeo risparmierebbe qualche decina di milioni all’anno dei servizi di interpretariato. Ma il risultato sarebbe che avremmo cittadini europei “madrelingua” e altri che devono utilizzare un idioma non nativo. E che i lost in translation sarebbero all’ordine del giorno.

Quindi, mi spiace per i demagoghi d’occasione, l’Europa è difficile, e pretendere di spiegarne i processi tagliando con l’accetta questa o quella balla, sparando qualche slogan euroentusiasta o euroscettico è una pia illusione. Ed è un inganno spesso doloso lasciar credere che l’Unione Europea abbia alternative. Divisi, i piccoli Stati europei possono solo diventare colonie, vasi di coccio fra i giganti continentali (gli Stati Uniti, la Cina, l’India, la Russia e prima o poi il Brasile e il Canada).

Isolare i nostri Paesi non è un obiettivo per cui battersi: è un destino scritto, se non lo si contrasta. E questo significa che dobbiamo sopportarci i “burocrati non eletti da nessuno” il fatto che un politico olandese dia giudizi sprezzanti sulle politiche economiche del Governo italiano, che il Parlamento europeo si interessi o addirittura condanni leggi sovrane di Polonia e Ungheria. Perché siamo legati nel bene e nel male, vocati a un unico destino, sia esso di progresso e prosperità o di miseria e disastro.

Il Meccanismo Europeo di Stabilità è un modo di tenere questa convivenza non sempre facile al riparo da caos ed eccessi. Contrasta la minaccia che negli ultimi anni ha tolto il sonno a cittadini e governanti d’Europa: la crisi del debito sovrano, che siamo stati costretti ad affrontare con rimedi disumani ed atroci (come il massacro del popolo greco) e poi con il Quantitative Easing, l’improvvisato colpo di genio di Mario Draghi, banchiere centrale divenuto illegalmente e provvidenzialmente imperatore dell’euro.

In sostanza i Paesi più grandi e più ricchi mettono dei soldi per raffreddare quelle situazioni di crisi che rischiano di sfasciare la casa comune. Che sono essenzialmente crisi del bilancio pubblico o di banche “sistemiche”. Solo a questo fine i Paesi membri sono disposti a derogare al criterio “chi l’ha fatta la copra”, che lascia il fardello allo Stato membro che ha in casa l’uno o l’altro di questi problemi.

È una grande idea? No. Una grande idea sarebbe, se non fare gli Stati Uniti d’Europa, trovare una forma di mutualizzazione del debito sovrano, se non una sua unificazione (ma il Regno d’Italia unificò il debito degli Stati pre-unitari solo trent’anni dopo l’Unità). Ma è troppo chiedere. Con l’Europa in mezzo al guado che ci ritroviamo, è stato già un grandissimo risultato convincere gli austeri e ricchissimi Stati del Nord-Europa a non imporre requisiti draconiani per l’accesso ai fondi da parte delle cicale mediterranee.

Perché, benché l’elettorato bambino e supponente che abbocca alle panzane sovraniste si rifiuti di crederlo, la storia non si fa con i proclami: se l’Italia fermasse o boicottasse il Mes, è ragionevolmente probabile che questo innervosirebbe i mercati e gli acquirenti dei nostri titoli di Stato, che è l’unica cosa che proprio non possiamo permetterci. Così come non è questa gran furbata dare la stura al timore che il nostro debito venga dichiarato insostenibile, perché qualcuno potrebbe attribuirlo al fatto che il nostro debito lo sia davvero.

Badate, l’Europa non è il giardino dei Finzi Contini o il Paese di Bengodi: è un luogo di lotta, di contese, di egoismi. Sono in tanti a voler viaggiare sul lussuoso treno dell’Unione pretendendo di non pagare il biglietto. Ragione ulteriore perché ci si vada senza il gravame di queste invereconde piazzate, a porre ragioni serie con argomenti seri. Come certamente ha fatto Tria, come certamente sta facendo Gualtieri.

Nel frattempo, se vogliamo divenire cittadini compiutamente europei (che è –diciamolo pure- una gran figata) sarà meglio che, oltre a cambiare gli esami di maturità ogni due per tre, qualcuno renda obbligatorio nelle scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento delle istituzioni comunitarie. Anche perché, mentre i sovranisti sbraitano, è di loro emanazione circa il 75% delle norme che siamo chiamati a rispettare.  

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