L’oracolo maggiore

by Raffaella Passiatore

Vienna, nono distretto, Berggaße numero 19, non molto tempo fa.

Cariatidi maschili dai muscoli gonfi e da barbe e capelli fluenti reggevano enormi cornicioni della Vienna imperiale. Per sempre imprigionati tra le pietre ed i marmi, per sempre destinati a condividere il loro destino con maschere grottesche dalle bocche spalancate, dagli occhi stralunati, dalle acconciature stravanti; forse orientali.

La scala all’interno di quell’edificio nella Berggaße era di marmo grigio chiaro, enorme e senza basamento. Come sospesa nell’aria si attorcigliava a serpente sulla testa del visitatore.

Luca quasi scivolò sul marmo lucidato a cera. Tirò indietro il capo ed osservò, con riverente timore, le spire a sangue freddo del marmo sollevarsi per aria.

Luca saliva le scale della vecchia casa. Era già in ritardo per la lezione di pianoforte.

Erano scaloni che sapevano di muffa e minestrina.

Luca saliva, saliva, e ad un certo punto prese coscienza della musica lontana del quarto piano.

Il figlio della signora Vierschocken studiava con Luca già da qualche mese e, adesso, si stava preparando alla lezione di pianoforte esercitandosi alle scale.

Luca prese a salire i gradini a ritmo di scale. Ad ogni nota un gradino, regolare in tempo e dinamica, come si conviene ad un buon pianista. Dopo le tre ottave in salita, il figlio della vicina iniziò le scale discendenti e Luca pensò se a quel punto dovesse anche lui tornare indietro agli scalini più bassi. Le gambe già sentivano la fatica di quegli esercizi, così Luca decise di proseguire verso l’alto.

Avrebbe dovuto già essere al terzo piano ed invece le scale, quelle di marmo non quelle musicali, continuavano senza incontrare il pianerottolo. Aveva forse perso il senso del tempo? Aveva sbagliato a contare i piani? Luca saliva.

Anche le scale del figlio della vicina ripresero a salire di tono. Stavolta però salivano e salivano oltre i tasti contenuti dalla tastiera, proprio come le scale di marmo, così acute da essere insopportabili. Luca si mise le mani sulle orecchie, prese fiato e corse, con quanta forza aveva, su per le scale. Ma il pianerottolo non arrivava mai e i suoni erano talmente acuti che Luca provò mille spilli nelle orecchie, gli sembrò che i timpani volessero schizzargli fuori. Allora gridò.

Si svegliò nella semioscurità della soffitta della vecchia casa. Giaceva su del legno marcio. Tutta la soffitta era di legno e grandi macchie verdastre di muffa gonfiavano le travi umide.

Si guardò intorno stupito. Come c’era arrivato? Intorno regnava una strana penombra; cianfrusaglie erano sparse un po’ dappertutto ed una sottile polvere gialla aleggiava intorno ad ogni respiro.

“Salve, Maestro”. Disse una voce.

Luca si guardò intorno ma non vide nessuno.

“Salve!” Ripeté la voce.

“Salve!” Disse Luca mentre la polvere gli tremava intorno.

Allora si sentì tirare un calzone. Essendo un pochino miope, strinse gli occhi per vedere meglio e si trovò davanti un topo grigio con gli occhiali da sole. Per la paura fece un balzo indietro e ricadde in una nuvola di giallo impalpabile.

“Mi segua !” Disse il topo. Così detto, si afferrò la coda con le zampette e, a mo’ di flauto traverso, iniziò a fischiettare una scala in Do maggiore. Luca si alzò e seguì imbambolato il topo a ritmo di scale. Salirono su per una scaletta stretta senza corrimano, che dava accesso ad una specie di botola che si apriva sul tetto.

Arrivati al Do della terza ottava, il topo si fermò all’interno di una stanza vuota ed indicò con la coda, a mo’ di dito indice, un’altra porta di ferro.

“Grazie, Signor Topo.” Disse Luca.

“A sua disposizione, Maestro”. Rispose quello menando la coda per terra a mo’ di frusta. 

Luca cercò di sorridere, poi si avviò verso la porta di ferro che si aprì con una leggera spinta.

All’interno c’era una stanza illuminata ed al centro una boccia enorme di vetro. L’acqua era torbida, fitta di milioni di bollicine simili a quelle dello champagne. Luca riconobbe un odore dolciastro, tipico dei pesci rossi in vasca. Da piccolo, i pesci rossi erano stati gli unici animali che i suoi genitori gli avevano permesso di tenere in casa. I pesci rossi li conosceva bene. Quello che era sopravvissuto più a lungo gli aveva fatto compagnia per due anni e si chiamava Pepy. Ma, dopo pochi giorni dalla morte di ogni pesce, puntualmente Luca ne riceveva un altro, ed ogni volta gli sembrava più bello del precedente. Quello di Luca per i pesci rossi era un amore contemplativo. Stava lì ore ed ore a guardarli, sapeva praticamente tutto di loro.

Guardò all’interno della vasca tonda. Non c’erano dubbi; quella era la vasca dei pesci rossi della sua infanzia, solo che adesso era di dimensioni enormi, come fosse andata lievitando giorno per giorno della sua vita.

L’acqua gli sembrò schiarirsi ed infatti, ad un certo punto, le acque si aprirono in due vortici, la boccia di vetro diventò chiara come il cristallo ed apparve uno sventolare di sete rosse.

Luca si avvicinò e distinse due occhi grandi come palloni da calcio. Erano sporgenti e dorati e lo fissavano.

“Pepy?!” Gli uscì spontaneo, pensando al suo più caro compagno d’infanzia.

“No, Pepy ha tirato le cuoia già da un po’.” Luca tossì d’imbarazzo.

“Mi chiamano l’oracolo in Do maggiore”. Spiegò una voce ovattata e poco articolata, come di chi parla con la bocca piena.

“Oracolo?”

“Sì, mi hai mandato a chiamare ed io sono venuto”.

Luca non si sentì di contraddirlo, mentre l’enorme pesce rosso lo guardava dall’altra parte del vetro sventolando al rallentatore due lunghe pinne laterali e aprendo ritmicamente i labbroni.

Aveva una pancia sporgente leggermente più chiara del corpo rosso-dorato e alle guance -decisamente molto grasse- erano appesi quattro baffi lunghissimi.

“Allora, che vuoi sapere, figliolo?”

“Mah, veramente non saprei…. Lei, Signor Oracolo, mi coglie di sorpresa…” Rispose Luca con la sua solita gentilezza un po’ impacciata.

Il pesce aggrottò le sopracciglia e con una pinna si lisciò un baffo.

“Va bene, ho capito, sei rimasto l’imbranato che eri da bambino, sappi però che non ho molto tempo. Passami una sigaretta, va!”

Luca corse velocemente con le mani nelle tasche esterne del cappotto e poi in quelle interne e finalmente avvertì la superficie del pacchetto di sigarette. Lo tirò fuori e nervosamente lo aprì, mentre pensava che, proprio quel giorno, aveva deciso per l’ennesima volta di smettere di fumare.

Al pescione porse il pacchetto di sigarette.

“Mmmm…..American Spirit gialle…non male, ti spiace accendermene una?”

Luca nervosamente tirò fuori una sigaretta dal pacchetto, se la portò alla bocca e l’accese. Dopo due avide boccate la porse all’oracolo. Questo allungò una pinna fuori dalla boccia, afferrò la sigaretta e la portò all’interno della vasca in una grande bolla d’aria che aveva appena sputato fuori.L’infilò in un bocchino di corallo, saltato fuori da chissà dove, quindi iniziò a fumare voluttuosamente sporgendo esageratamente le labbrone rosse ad ogni tiro. Dopo ogni boccata il pesce rosso apriva la bocca ed espirava pronunciando un Uuut di piacere.

A Luca venne una voglia irrefrenabile di stringere le labbra intorno al filtro e di riempire i polmoni del sapore amaro del tabacco.

“Lei permette?” Disse tirando fuori dal pacchetto un’altra sigaretta.

“Prego, prego, figliolo”. Disse l’oracolo come se avesse una patata in bocca.

Luca accese la sigaretta ed inspirò.

“Ecco, si rilassi figliolo, va bene così, molto bene….molto bene. Desidera stendersi? Posso farLe portare un divano se vuole”.

“Beh, se fosse possibile, non dico di no”.

L’oracolo dette un colpo di coda e, dopo il rumore sordo e gli spruzzi d’acqua, apparvero immediatamente due topi. Legato alle loro code, trascinavano un divanetto rosso a spalliera bassa che sistemarono subito di fronte alla boccia di vetro. Luca riconobbe il topo con gli occhiali da sole incontrato al suo risveglio in soffitta, gli fece un cenno di saluto col capo e quello, per tutta risposta, gli afferrò una gamba con la coda a mo’ di lazzo. La coda si attorcigliò alla caviglia di Luca, il topo tirò e quello finì sul divano a gambe per aria. La sigaretta gli cadde di mano ed il topo l’afferrò al volo, se la mise tra i denti e ridacchiando corse via.

“Si metta comodo, figliolo, prego”. Disse il pescione.

Luca si stese sul divano ed appoggiò la testa sul bracciolo tondo.

“Allora, figliolo, vogliamo iniziare?”

“Sì, va bene”.

“ Ut- re- mi- fa -sol ! Allora, mi dica, a cosa sta pensando in questo momento?”

“Penso, penso…..alla mamma….sì, alla mia mamma e…alla zuppa di pesce del venerdì…..”

“Su, su andiamo Maestro, siamo seri !”

“Va bene, allora penso….sto pensando…..ad un serpente enorme, sì, vuole mangiarmi ed io sono Tamino e….”

“Via, via, ma Lei è proprio fissato con il sesso, eh?”

“Sesso? veramente io sentivo nella testa la musica di Mozart e…”

“Appunto! Ut- re- mi- fa- sol: alienazione professionale impastata a simbologie falliche edipali. Suvvia, cerchi di concentrarsi!”

“Ci provo, ci provo….”

Il pesce rosso gonfiò le guance ed emise uno sbuffo di bollicine.

“Ecco, ecco….cerco il mio pianoforte e non lo trovo. È qui da anni, nel solito angolo della mia stanzetta, da anni torno a casa e lui è lì, ed invece adesso non c’è; guardo in ogni angolo, lo cerco  dappertutto, non lo trovo….e….ah! Sento un dolore terribile alle falangi del terzo dito….”

“Si calmi, si calmi…. Adesso mi guardi attentamente negli occhi: sol- fa- mi- re- do !”

Luca si mise a sedere a gambe incrociate sul divano e fissò il pesce rosso negli occhi. Questi si misero a girare emettendo una luce dorata ed un suono profondo che gli fece vibrare tutto il corpo.

 “Do-Doooooooo” Pronunciò sulla stessa tonalità il pesce con un vocione da basso.

“Doooooo” Cantò con voce di tenore Luca, chiudendo gli occhi.

“Bene.” Disse l’oracolo.

“Adesso figliolo, lei sente solo la mia voce, solo la mia voce e quando si sveglierà non ricorderà niente di tutto quello che è successo, solo della mia voce Le rimarrà memoria.

Ha capito, figliolo?”

“Sì, ho capito”.

“Da questo momento in poi lei odia la zuppa di pesce, ha capito? Lei non sopporta neanche l’odore del pesce!”

“Sì, che schifo il pesce!”

“Bene, molto bene. I serpenti, invece…per Nettuno, che animali meravigliosi i serpenti!! Lei adora i serpenti; se un serpente le passa davanti Lei lo accarezza sotto il naso e quello inizia a fare le fusa. Lei i serpenti se li porta pure a letto e gli dà il bacetto della buona notte! Ha capito, Maestro? Lei ama i serpenti e loro si darebbero in pasto ai cinesi pur di farLa contento, ha capito?”

“Sì, che sballo i serpenti!”

“Molto bene. Adesso intoni un Do e dica con me: Do-Dooooooo…”

“Do-Dooooooo…” Obbedì Luca.

……………..

“Si svegli, Lei, si svegli!!!”

Luca avvertì uno strattone al braccio ed aprì gli occhi. Stava steso sul pianerottolo del terzo piano, davanti alla porta della famiglia Vierschocken, e più precisamente del suo studente Otto Jürgen Vierschocken. La madre di quest’ultimo, la Signora Walpurga Vierschocken, lo guardava strabuzzando gli occhi.

“Lei è in ritardo di ventitrè minuti! Se non fossi uscita a buttare l’immondizia sarebbe rimasto qui sul pianerottolo a dormire, invece di far lezione a mio figlio! Ah, ma questi ventitrè minuti non glieli pago mica, sa! Ma che si crede Lei? Ah, loro fanno i grandi artisti; andate a lavorare piuttosto! Parassiti della società, sapete solo sfruttare chi veramente lavora. Sognare, questo sapete fare, vivete in un mondo di favole voi ed invece a noi tocca romperci la schiena! Andiamo, si alzi, non vede com’è ridicolo lì per terra? Si alzi e vada a fare il suo dovere!”

In quel momento la porta socchiusa si aprì ed apparve il figlio della Signora Vierschocken; Otto Jürgen Vierschocken, detto Jockel.

Jockel era un ragazzino biondo di circa dieci anni, aveva un naso piccolo ed esageratamente curvato verso l’alto, occhi minuscoli leggermente infossati di un celeste talmente chiaro da sembrare fatti d’acqua.

La porta era aperta e dall’interno giunse a Luca un odore di pesce fritto. Fu come un lento insinuarsi nelle narici prima e poi uno scivolare giù, velocemente, molto velocemente nello stomaco.

Luca guardò il piccolo Jockel Vierschocken e gli scoprì tra le dita, lucide di unto, un bastoncino di pesce Findus.

Luca sentì un dolore fortissimo al terzo dito della mano sinistra e si sollevò di scatto dal pavimento del pianerottolo. Un odore nauseabondo di pesce, proveniente dalla persona della Signora Vierschocken, gli provocò un conato di vomito che rovesciò sopra le pantofole imbottite della signora.

Con la gola in fiamme indicò col terzo dito steso, irrigidito dal dolore, come di marmo, in direzione del piccolo Jockel, gridando: “Io lo odio, lo odio! Mi fa veramente schifo!”

Non si fermò un attimo di più.

Mentre correva giù per le scale gli giunsero, in echi lontane, gli insulti della Signora Walpurga Vierschocken ed il pianto del piccolo Jockel.

Luca scivolò sul marmo lucidato a cera, piegandosi leggermente sulle ginocchia per acquistare stabilità. La curva che si apriva verso il portone la prese a gran velocità e sentì con piacere la tensione dei muscoli delle cosce. Rafforzò l’equilibrio con le braccia tese, planò con un saltino sullo zerbino e con tutta la forza spinse a braccia tese il portone.

Davanti al portone si fermò un attimo per dare ancora di stomaco.

Fuori era un deserto bianco. La strada coperta di neve riluceva nel buio della sera. Un vento tagliente e gelido gli prese a rasoiate la faccia. 

Eppure Luca si sentiva felice come non lo era mai stato prima. In testa gli girava una melodia in Do maggiore, che non sapeva da dove fosse saltata fuori e girava, girava e non lo lasciava più, e tanto gli girava anche la testa.

Prese a camminare senza pensare e si ritrovò improvvisamente in un luogo mai visto prima; gli sembrò di essere in un’altra città. La strada si chiamava Steingaße, e costeggiava la parete di una montagna. Una montagna a Vienna?

Percorse la stradina buia fin oltre una curva, superò un arco, la strada era pavimentata di grandi pietre levigate, alcune bianche altre nere. Gli venne voglia di saltellare su un piede solo, balzò quindi su una pietra nera, e poi altre due successive stando ben attento di evitare le lastre bianche.

Fu allora che alzò la testa e si trovò di fronte una casetta rossa.

Appeso sulla porta stava un lampioncino rosso a forma di cuore. Su una lastra di metallo c’era scritto: Maison de Plaisir e più sotto Frauen mit Herzen.

Suonò al campanello. Dopo qualche secondo la porticina si aprì. Luca entrò canticchiando quella melodia che l’aveva accompagnato fin lì ma, a furia di girargli nella testa, la melodia non era più la stessa.

“Un tango,” -Pensò-  “Sì, mi metterò a comporre un tango in Do minore”.

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