Marco Ferrazzano, il divertimento, in provincia, ha un lessico barbaro e cinico

by Felice Sblendorio

Il divertimento, in provincia, può assumere significati strambi, obliqui, degradanti, spesso determinati dalla violenza. C’è un lessico barbaro e cinico che ha bisogno di poche parole: bastano regole nette, rapporti determinati dalla forza, il senso della ragione piegato all’irragionevole, all’inspiegabile.

È una dura lotta marcare la propria identità da queste parti. Lo è ancora di più per chi è considerato fragile, difettoso, non conforme alle regole.

Sebbene non ci siano ancora particolari certi sulla terribile morte di Marco Ferrazzano, il ventinovenne morto a Foggia il 22 gennaio, è sicuramente questa grammatica di violenza che bisogna decifrare, svelare. Una violenza che parte dalla realtà per poi finire nel tritacarne dei social – il percorso è sempre quello classico: sono le persone che fanno i mezzi, sono le parole e la propria postura a influenzare i contenitori digitali, non il contrario.

Al suicidio di questo ragazzo umiliato, derubato e ferito si collega un’aggressività che parte dal reale e, come un vanto, viene esportata. Sul web, zona franca, nello spazio inestetico e triste di una pagina social. Si chiamava – fino al giorno della cancellazione perché, si sa, il gioco dei bulli si spezza subito quando non rientra più in un perimetro di debolezze altrui – “Comiche Foggiane”. Su Instagram, qualche migliaio di like per una raccolta di post, video, foto emblematiche. Bisognerebbe analizzare quella pagina che, nel profondo, è molto più di un simbolo.

Nella bio si leggeva: «Pagina foggiana, video e immagini senza senso e divertenti, sui nostri vip foggiani. Seguiteci e inviateci immagini». Le immagini e i video – senza senso e, inspiegabilmente, per qualcuno divertenti – immortalavano persone vulnerabili, disabili, anziani in difficoltà assediati dalla meschinità di qualche bullo, di qualche giovane annoiato.

Colpisce molto quella descrizione perchè, forse, ci dice qualcosa di più su chi siamo, sul territorio che ci circonda, sulle città che abitiamo, sulla povertà esistenziale di noi giovani, su quanto sia insufficiente e circoscritto il lavoro di alcune agenzie formative, sui simboli che si formano in quell’amalgama strana e imprevedibile che è l’interazione sociale. Ci dice che sì, ci si diverte ancora vedendo qualcuno in difficoltà, vedendo qualcuno ripetere cose assurde come una macchina inceppata, vedendo qualcuno cadere sotto i colpi di uno schiaffo, intimorito e solo nel mondo dei bulli senza empatia.

Nella città della quarta mafia, dove la speranza e le possibilità sono utopie, e la tolleranza e la gentilezza sono relegate a inutili buone maniere, ci ritroviamo in un pantano di comportamenti e modi di essere, di vivere. In un territorio che dimentica spesso il lessico civile di una comunità sana, si condannano le nuove generazioni a costruirsi una propria personalità, un proprio sé, nell’interazione sociale di una realtà depressa e incolta.

Sembra che la storia di Marco, ma più in generale i tanti episodi di bullismo registrati in questa provincia, siano aggravati da un contesto ambientale che alimenta terrore e degrada vite. Così, in una miseria senza prospettiva, ci si diverte con poco. Il non-sense guida l’idea, la violenza alimenta l’azione. Il tutto, tristemente, in questo pezzo di Mezzogiorno cupo e senza bussola che trasforma pezzi di città in zone inaccessibili, comportamenti osceni in scherzi di poco gusto, giovani perduti e soli in bulletti di quartiere predestinati a ottenere, nella vita, poche briciole.

Tutto così triste, scontato. Forse, leggendo di un ragazzo costretto a suicidarsi per un ricatto o per il peso della vergogna, tutto così perduto. Nelle pieghe di questi quartieri, dove le parole violenza, mafia o illegalità come scriveva Alessandro Leogrande sono troppo fredde per definire il sedimentarsi di questi processi, bisognerebbe scommettere su una nuova rivoluzione culturale.

Lo crede anche un gruppo di associazioni, di associazioni giovanili, che ha suggerito al Prefetto le priorità: disagio culturale, povertà educativa, abbandono scolastico. Problematiche di una vita – e di un territorio – che la politica, semplicemente, minimizza, relega alla teoria, ai buoni di spirito, al volontariato, ai sognatori.

Servirebbe, invece, un processo politico che trasformi la realtà, facendola diventare uno spazio condiviso di pensiero, azione, educazione. Niente retoriche, però: servono idee, fondi, progettualità, impegni diffusi. Se ogni piccolo tassello ritroverà il suo posto in una comunità più accogliente e meno ostile, allora forse sarà possibile pensare più al dialogo che all’insulto, più all’aiuto che alla distruzione.

Questi bulli, cresciuti in un territorio che mostra sempre meno possibilità empatiche, sono figli di questa depressione, di questo scontento. Figli di una terra costretta alla sopravvivenza, ai gesti sbagliati, a una mentalità culturalmente mafiosa, all’idea che cambiare sia terribilmente difficile, a una postura che individua nella prevaricazione l’unica forma di sapienza, rispetto, onore. Figli di un tessuto sociale che, oramai, nella stanchezza di un presente senza più coordinate valoriali ignora, si rinchiude nel perimetro delle proprie gioie o dei propri tormenti, passa avanti, distoglie lo sguardo.

Se saremo in grado di cambiare qualcosa, trasformando il reale in un cantiere politico della tolleranza, bisognerà cominciare dai simboli. Da quelle piccole tracce che parlano intrinsecamente di una società e del senso di quella comunità. I simboli sono subdoli, si innescano in un racconto, in un vissuto, ma poi crescono, maturano, mutano.

Sarà impossibile sradicare questi simboli se non cominceremo a scegliere personalità pubbliche capaci di agire sul reale, e non di farsi agire dal peggiore di reale. Penso al famoso video dell’ex presidente del consiglio di Foggia, Leonardo Iaccarino. Proprio quel video, che ci ha riportati sulle cronache nazionali, tentava di imitare una persona in difficoltà, immortalata e diffusa su chat e su alcune pagine Instagram. «Non è una barzelletta», ripeteva Iaccarino: ridicolizzando una persona fragile, in stato di agitazione.

Le analogie con la brutta storia di Marco cominciano e finiscono qui, ma è il contesto quello che conta. Non è stato certo Iaccarino con quel gesto infantile e squalificante a influenzare una comunità, ma è stata pericolosamente una società a influenzare i comportamenti di tanti esponenti del ceto pubblico. Un ceto politico che non argina, ma accoglie la miseria del contesto; che non produce, ma viene prodotto, spesso, dalla parte peggiore della società.

Forse, è arrivato il momento di tentare di cambiare questo reale, sperando che ci cambi.

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