Sanremo, solo canzonette? Macché!

by Enrico Ciccarelli

Come tutti, non so se alla fine ci sarà risparmiata la vergogna della censura della Rai a Rula Jebreal, e quindi potremo ascoltare dal palco dell’Ariston le parole di questa giornalista israeliana di etnia palestinese naturalizzata italiana. Nel caso, non so se le sue parole mi troveranno consenziente; quando l’ho ascoltata non è sempre successo. Ma il fatto che si sia scatenato contro di lei un ostracismo assurdo e immotivato mi schiera dalla sua parte senza alcuna remora.

Non so se la canea dei cosiddetti sovranisti, scatenata da Dagospia e dal tristo Capezzone (ma come ha fatto un figuro del genere a stare fra i radicali?), sia in qualche modo compresa o approvata dai leader del centrodestra. Fosse così, sarebbe atto di grave miopia e di barbarie. Perché un conto è protestare, ribattere, confutare qualcosa che qualcuno ha detto (cosa del tutto legittima); un altro esigere che costui venga bandito, escluso, tacitato prima ancora di avere ascoltato cosa ha da dire.

Si può capire che si storca il naso per la presenza di rappresentanti politici a quella che resta una kermesse canora; che questo si estenda ad altre figure è pericolosa militarizzazione del discorso pubblico, impostazione illiberale e censoria che dovrebbe essere scongiurata innanzitutto da chi è in questo momento all’opposizione. Ma tant’è. Ognuno vede le cose e imposta le sue strategie politiche a proprio modo.

Fra le obiezioni che registro sui social, quella che trovo più francamente comica è “a Sanremo non si fa politica”. Bisogna essere davvero ottusi o bigotti per non comprendere che il Festival della Canzone Italiana è da settant’anni un luogo di politica. Non negli allestimenti, nei fiori che riempiono tradizionalmente l’Ariston, men che meno nei conduttori e negli ospiti. Lo è nelle canzoni.

Perché, come ha spiegato egregiamente il compianto Gianni Borgna nei suoi libri, la canzone politica non è l’urlo di Paolo Pietrangeli in Contessa o le eresie neofasciste di Leo Valeriano; è canzone politica soprattutto la colonna sonora nazionalpopolare del costume di casa, quella che fischiettano le persone per strada, che diventano proclamazione di identità.

Così, se Pippo Barzizza e le sue Mille lire al mese rappresentano l’ideale piccolo borghese dell’Italiano medio (che non sa di essere chiamato meno di un anno dopo all’ora delle decisioni irrevocabili) se il Tamburo general della Banda d’Affori è trasparente presa in giro della retorica di regime, la democrazia del dopoguerra si fa accompagnare da melodie che segnano lo spirito del tempo e i rivolgimenti sociali in modo fedele e pedissequo.

Quando Nilla Pizzi, nella seconda edizione del Festival (1952), trionfa con Vola, colomba, parla esplicitamente e implicitamente di Trieste irredenta (“che inginocchiata a San Giusto prega con l’animo mesto”), racconta un’Italia che vuole riacquistare orgoglio e fierezza anche dal punto di vista militare (lo dirà in modo ancor più chiaro Gino Latilla l’anno successivo; ma il suo Vecchio scarpon” arriverà solo terzo).

È l’urlo rivoluzionario e liberatorio di Domenico Modugno a dare fiato nel 1958 al desiderio di sprovincializzazione dell’Italia del miracolo economico, e a lasciarsi alle spalle il Paese piagato e un po’ grigio degli anni Cinquanta.  Ed è il colpo di pistola con cui Luigi Tenco pone fine alla sua vita, nel 1967, a segnare l’avvenuta intollerabilità dei vecchi schemi, delle vecchie logiche, delle vecchie canzoni (Io, tu e le rose, nelle parole del grande cantautore, diventa il simbolo di questa società soffocante e stantia).

Sanremo farà resistenza: la reazione confindustriale all’autunno caldo è tutta nel Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano e Claudia Mori, la coppia più bella del mondo, che vince nel 1970, all’inizio di un decennio che nella sua seconda metà sembrò segnare il tramonto del Festival.

Ci si riprende negli anni Ottanta, quando termina il lungo evo dell’inevitabilità democristiana e l’alternanza a Palazzo Chigi favorisce nuove retoriche, a cominciare dal partigiano per presidente dell’Italiano di Toto Cutugno. Fa capolino l’irriverente Clarinetto di Renzo Arbore, e si chiude in bellezza con l’inno buonista Si può dare di più del trio Tozzi-Morandi-Ruggieri.

Anche nel terzo millennio, dopo un decennio dominato dalle sapienti mimesi del baudismo (rivoluzioni? Solo con il permesso del Signor Questore) Sanremo non rinuncia alla sua vocazione politica. Ne sono esempi più o meno illustri il vomito omofobo del Povia di Luca era gay, la vittoria con L’essenziale di Marco Mengoni, primo omosessuale dichiarato a trionfare all’Ariston,  quella del 2011 di Roberto Vecchioni, che con Chiamami ancora amore, che segna la fine del berlusconismo nelle coscienze prima ancora che nelle istituzioni (“questa lunga notte sta per finire”).

Il resto è cronaca recentissima, con l’inno antiterrore di Ermal Meta e Fabrizio Moro, vate grillino ma anche bella voce, e la vittoria di uno che si chiama Mahmood, sulla quale giornalisti, polemisti e politici italiani hanno fatto del loro peggio.

Per cui chiedo sostegno ai miei ventitré lettori: al prossimo che vi dice, di persona o sui social “A Sanremo non si fa politica” fate una pernacchia da parte mia. Sonora, per favore. Perché sono tutt’altro che solo canzonette.

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