Vivere dopo la fine del mondo

by Simone Regazzoni

Nel momento in cui si è scatenata, imprevista, la pandemia Covid19, abbiamo fatto una serie di esperienze che hanno segnato la nostra idea di mondo e che potrebbero essere sintetizzate con la formula “fine del mondo”. Ecco cosa abbiamo vissuto e che dobbiamo sforzarci di pensare per essere all’altezza di quanto accaduto. Quella di cui abbiamo fatto esperienza è stata davvero la fine del mondo. Non che dovessimo attendere il Covid per decretare che l’idea di mondo come totalità dotata di realtà e senso fosse andata perduta. La filosofia lo ha detto da tempo, almeno a partire da Nietzsche, ma non sempre la filosofia va d’accordo con il senso comune.

Che cosa è accaduto con il Covid? Almeno tre cose, intimamente legate l’una all’altra.

  1. Da un giorno all’altro, i viventi umani si sono ritirati per mesi a vivere nel microcosmo delle loro abitazioni, al riparo dal mondo esterno. Il mondo si è progressivamente allontanato, svuotato, è diventato altro, quasi irriconoscibile.
  2. Da un giorno all’altro, un essere ai margini della vita, un virus, ha preso possesso del mondo (era nell’aria, nell’acqua, nelle strade, nei corpi dei viventi) ma il discorso scientifico a cui ci si aggrappava per avere una risposta vera su quanto stava accadendo si è dimostrato incapace di verità. Ogni voce scientifica aveva una risposta diversa, un’interpretazione differente.
  3. Da un giorno all’altro per descrivere la realtà di quanto stava accadendo non facevamo appello alla “realtà” di quanto stava accadendo e nemmeno al discorso scientifico come descrizione vera di quella realtà, ma alla fiction, ai romanzi e ai film che avevano già messo in scena quanto stava accadendo nella forma di una narrazione apocalittica. La formula “sembra di vivere in un film” è stato il modo ai nostri occhi più realistico per descrivere una realtà che non era più alla misura di se stessa: una realtà irreale.

In pochi mesi abbiamo fatto esperienza collettiva di quanto avevamo già vissuto ma in forme meno concentrate, intense, totalizzanti: la fine del mondo come totalità unitaria dotata di senso in cui orientarsi con la razionalità dell’io penso. Non sapevamo letteralmente più cosa pensare e scoprivamo giorno dopo giorno i nostri corpi esposti  e vulnerabili a qualcosa che il pensiero non era in grado di comprendere, spiegare, fermare.

Il mondo è andato in frantumi e la realtà che avevamo sepolto sotto quella semplificazione che chiamiamo “vita quotidiana” si è mostrata più complessa di quanto credessimo: non semplicemente un insieme di fatti che ci stanno sotto gli occhi, ma un intreccio caotico di interpretazioni, prospettive, discorsi, verità, finzione, che per essere abitato richiedeva da noi un racconto che provasse a mettere un qualche ordine, per quanto provvisorio. Da qui la pulsione a raccontare sui social la nostra quotidianità, il nostro naufragio in un mondo sconosciuto. E’ stato il nostro modo di costruire mappe.

L’esperienza della fine del mondo è stata l’esperienza di una realtà come sistema da alta complessità vissuta direttamente e in cui siamo ancora immersi. La vera sfida oggi è abitare questa complessità senza nostalgie, compresa quella veicolata da alcuni filosofi di un ritorno a una mitica natura come spazio in cui recuperare il senso di un mondo e di una realtà perduti. E’ la favola rassicurante che ad alcuni piace raccontare per farci addormentare: quanto accaduto ha un senso, è la punizione perché siamo stati cattivi con la natura, dobbiamo tornare alla natura come vera e unica realtà e il caos finirà.

Le cose sono più complesse, la realtà è complessa. Ma qual è la dimensione di questa realtà complessa? Il molteplice al posto dell’Uno, un molteplice come pluralità di mondi intrecciati tra di loro in cui dobbiamo imparare a vivere. Quando dico vivere voglio dire che l’approccio a questa molteplicità non può essere puramente mentale: i nostri corpi o meglio l’unità di mente e corpo è essenziale per giocare al meglio la nostra partita nel gioco dei mondi. E’ quanto abbiamo scoperto in questi mesi. Le narrazioni, le auto-narrazioni, le chat, le video chiamate, le conferenze improvvisate non bastavano più: mancavano i corpi, quei corpi che giorno dopo giorno apparivano sempre più provati nei video e nelle immagini, tanto da rendere poco credibili, poco convincenti di discorsi edificanti del filosofo di turno che si misurava a parole con la complessità.

Ecco l’altra grande questione  emersa in questa fine del mondo: siamo corpi viventi non semplicemente cose pensanti, dove con “viventi” dobbiamo intendere “che respirano”. Da qui gli enormi investimenti simbolici di questi mesi sulle nostre bocche e i nostri nasi coperti o scoperti: lì abbiamo ritrovato il nostro essere come respiro vitale-mortale. La nostra vita si è condensata lì al punto da poter dire “respiro dunque sono”. La bocca, prima ancora che luogo di parola, è luogo di respiro.

In una lettera del marzo 1638 Cartesio scrive: “Quando si dice: respiro dunque sono, se si pensa di dedurre la propria esistenza dal fatto che la respirazione non può esserci senza di essa, non ci può essere nessuna conclusione, in quanto bisognerebbe aver prima provato che è vero che si respira, e questo è impossibile, a meno che prima non si sia provato che si esiste”. Cartesio vuole liberare l’essere dell’io dalla dimensione del corpo-che-respira, del corpo vivente, animale, per saldarlo al pensiero. Per fare questo non cancella semplicemente la respirazione, ma la ingloba nel “pensiero di respirare che si presenta al nostro spirito prima di quello della nostra esistenza”, e quindi procede facendo coincidere “io respiro dunque sono” con “penso dunque sono”.

L’epoca della fine del mondo è anche l’epoca della fine del soggetto che pensa di orientarsi nel mondo e di abitarlo solo con il pensiero. I filosofi della natura, oggi molto di moda, anche quando ci parlano di alberi, prati, fiori, semi, animali, metamorfosi, rischiano sempre di rimanere prigionieri dell’illusione cartesiana e la loro filosofia di ridursi a mero discorso,  gioco mentale per filosofi seduti a tavolino. Non è questo il modo per rispondere alla sfida della realtà complessa.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di menti incarnate, di pensieri incorporati, di pensatori-atleti che sappiano ben respirare, cioè vivere. Al di là del logos, del pensiero-discorso, c’è bisogno di una filosofia del respiro vale a dire della vita.

Durante la quarantena avevo preso l’abitudine di guardare ogni notte una puntata del meraviglioso documentario su Michael Jordan, The Last Dance. Guardavo la vita di Jordan dispiegarsi tra disciplina di sé come allenamento, strategie di gioco, partite, interazione con i compagni e gli avversari, auto-narrazione di Jordan in prima persona, narrazioni di altri protagonisti di quegli anni, cornice narrativa del regista, vita privata di Jordan, costruzione del mito globale di Jordan, interazione con la macchina del marketing. Avevo di fronte un sistema ad alta complessità come intreccio di mondi e una vita come modo avventuroso di tracciare un percorso inedito attraverso quei mondi, in cui mente e corpo, sono un unicum.

Ecco, pensavo, una straordinaria meditazione post-cartesiana su cosa significhi vivere la realtà come pluralità di mondi.

Simone Regazzoni, docente presso la Scuola Holden e autore di saggi e romanzi.

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