Zeman chiede soltanto di essere libero

by Filippo Mucciarone

Scrivere di Zdenek Zeman è scrivere di uno stato d’animo, una categoria dello spirito, un modo di essere al mondo. Probabilmente è per questo che il pianeta-calcio non contempla mezze misure riguardo al tecnico boemo: non si può convincere qualcuno con un argomento prerazionale come l’emozione; o la senti o no. Inoltre, la figura di Zeman ha un afflato etico-politico che a qualcuno, nell’amorale mondo del calcio, può infastidire. Alcune categorie quasi manichee sembrano, infatti, prendere forma al cospetto del boemo: bene vs male, divertimento vs risultato, addirittura comunismo utopistico vs grande capitale.

I suoi detrattori hanno cercato di evidenziare in ogni modo che le loro critiche, invece, sono tutte al di qua della linea che separa calcio e ideologia: Zeman deve rimanere fuori dal calcio perchè, semplicemente, non sa allenare. La sua concezione della tattica è, a dirne bene, vetusta e, al peggio, malsana. Zeman improvvisa, Zeman ignora un aspetto fondamentale come la fase difensiva, Zeman non ha una vera idea di calcio, ma solo una pallida ambizione di stupire.

Gli adepti del calcio zemaniano, talvolta, rispondono con argomenti squisitamente economici, cioè, cercando di convincere i pragmatici del pallone nel loro stesso campo. Ricordano che il tecnico boemo ha valorizzato decine di calciatori prima di lui nulli, falliti o dimenticati. Ha generato plusvalenze straordinarie, ha generato complicità con gli ambienti che ha allenato facendo aumentare presenze allo stadio, etc.

Comunque la si metta, affermare che sul piano tattico il calcio di Zeman non abbia un’idea forte a guidarla, è un’affermazione quantomeno rischiosa . Il suo è un calcio della verticalizzazione ad ogni costo, che sceglie, dei due modi possibili d’interpretare la logica calcistica, quella che “vince chi segna un gol in più”. Il rovescio di ciò è, ovviamente, la concezione che a vincere sia chi subisce un gol in meno dell’avversario. Due frasi che logicamente si rimandano, ma che nella prassi dividono invece in maniera fondamentale il modo di interpretare il gioco, perché indicano diverse priorità.

A Zeman interessa il controllo del gioco, e questo, per lui, può passare solo dall’idea che si debba produrre il proprio destino, e non evitare che si avveri quello altrui. Anche riguardo un altro capo d’accusa classico dei detrattori zemaniani, ossia il suo presunto dogmatismo riguardo la scelta del modulo, l’imperituro 4-3-3, il boemo è molto chiaro:

“Gioco così perché non c’è modo migliore di coprire il campo”.

Stop. Nessuna presa di posizione aprioristica e anti-scientifica, insomma. Proprio a questo modulo dobbiamo le immagini più iconiche del calcio zemaniano: la linea di difesa altissima – praticamente a centrocampo -, i reparti coesi come una falange, il fraseggio veloce nello stretto, i terzini arrembanti, il regista che in due tocchi taglia il campo, le ali strette divise tra tentativo furioso di triangolazione e incursione. Il pallone scotta nelle squadre di Zeman, bisogna liberarsene subito, ma con logica. La porta è al centro della linea di fondo, quindi perché mai allontanarsene?

Poi, va detto, il suo calcio, rispetto alla scienza di altri allenatori, può ricordare l’alchimica o la stregoneria, o presentare una mancanza di accortezze quasi ridicola a volte. Eppure… Mentre improvviso un discorso meramente tattico, mi rendo conto che non è abbastanza. Non lo è, perché lo spirito del sistema zemaniano non è propriamente calcistico. Qualsiasi allenatore potrebbe essere d’accordo con le modulazioni del boemo, con le indicazioni geometriche e il tentativo di conquista territoriale continuo. Il vero dilemma è altrove, allora, se Zeman è considerato un estremista e altri suoi emuli sono invece visti come degli equilibratori. Ogni utopia, – necessariamente – ha un’età dell’oro e poi un’età “politica”, nel quale si scende a patti con la realtà. Anche Zeman sarebbe stato quindi integrato e tradito dai suoi eredi?

Per rispondere a questo, bisogna volgersi verso un’altra sponda del problema. Il vero nucleo della diversità zemaniana, la pietra dello scandalo, è che il boemo risponde in maniera diversa alla domanda fondamentale del gioco del calcio (e forse di qualsiasi altro gioco, almeno nel suo ambito professionale): perchè si gioca? Senza dubbio, la maggior parte degli addetti ai lavori, concordano nel rispondere in coro: per vincere.

Ed è qui che Zeman arretra quasi inorridito, è qui che diventa il visionario ermetico, è qui che si mette al di fuori del professionismo: si gioca forse per vincere? No. Vincere è solo l’effetto collaterale involontario di una serie di operazioni non tutte rispondenti al controllo umano. Bisogna dirigersi altrove per cercare il senso del pallone rotolante. Bisogna, infatti, mettere in prima linea gli uomini e l’arte della creazione. Questo significa che il gioco per Zeman è quel momento della vita nel quale gli esseri umani si prendono la libertà. Se la prendono perché vogliono e riescono a darsi le loro proprie regole di condotta, senza seguire l’ideologia dominante. Il gioco è il momento dell’auto-determinazione creativa, nel quale si diventa ciò che si è realmente.

Cosa significa avere un pallone tra i piedi? Significa star creando; significa nutrirsi della propria libertà – ora e adesso -, della volontà di costruire. Lo spazio del gioco è lo spazio in cui le regole del potere, e quelle del divenire, risultano sospese – o almeno, lo si può fingere. Questo, certo, si deve pur tradurre in dettami tecnico-tattici, ma solo poi. La traduzione calcistica di questo sotto testo si trasforma nell’art.1 della tavola dei comandamenti zemaniani: “il risultato è casuale, la prestazione no”. Ossia, ciò che è in potere del giocatore – dell’uomo- è il suo atteggiamento, la sua posizione nel cosmo, e non il risultato delle sue azioni – se esse sono svolte in coscienza e con dignità, anche nella sofferenza. Il che non equivale a rifiutare il concetto di impegno, bensì a liberarlo dalle pastoie dell’obbligo del risultato a ogni costo, dalla produttività sconsiderata.

Nel 2012, Il boemo dichiara infatti:“La fase difensiva si faceva sempre, penso che anche per i giocatori è più soddisfacente costruire piuttosto che distruggere. E per distruggere devi usare le maniere forti: e io sono un uomo di pace. In generale vorrei che la mia squadra riuscisse ad avvicinare la gente e dare delle emozioni. Queste ultime possono essere di due tipi, ma si tratta sempre di emozioni”.

Quale miglior dichiarazione per divulgare un credo, allora. Zeman non ha paura, nel caso, di vincere (“Non è vero che non mi piace vincere: mi piace vincere rispettando le regole.”), né nega che il calcio, come la vita, preveda momenti in cui il pallone semplicemente non è tra i nostri piedi e bisogna resistere, e resistere ancora. Ma le priorità del suo calcio devono essere ben chiare: questione di scelte fatte e mai disconosciute. Ricerca dell’armonia perduta, la pace. La dignità del bello è da lui difesa come il segreto più nascosto da salvaguardare; come qualcuno ha già detto, nella vita o si vince o si impara. Non c’è sconfitta nel cuore di chi sogna.

Il calcio d’altronde, non è solo di chi lo gioca, ma anche di chi lo guarda. Zeman in questo è sempre stato chiaro. Oltre alla salute dei suoi giocatori (si conoscono le battaglie del boemo su questo fronte, ma questa è un’altra storia, per quanto non completamente slegata), il calcio deve rispettare l’idea per cui è nato: l’intrattenimento. Ma che esso sia positivo, pedagogico, lenitivo! Il calcio professionistico deve ricordare che la sua popolarità è dovuta a un segreto che alberga nel cuore dei suoi tifosi, segreto forse dimenticato da alcuni, ma non per questo meno vivo:

“La grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza, in ogni angolo del mondo, c’è (o possa esserci) un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi”.

Eppure, non ci si deve confondere quando si legge di verbo, divulgazione, rivoluzione. Zeman non è un rivoluzionario, non almeno nel senso che riguardi una ricerca di proseliti, un cambiamento organico, una nuova venuta di un nuovo modo – e come potrebbe esserlo, così estenuante nella lentezza del parlare, così aforistico e sibillino, così ossessivo, insomma così “anti-comunicativo”. Zeman è tutt’al più un rivoltoso, che nella sua battaglia non intende essere seguito, o comunque che non crea le condizioni perchè esso avvenga. Il boemo è ironico, ma allo stesso tempo incapace di compromessi tecnico-morali. La sua ribellione è stata poi resa scientifica, ordinata, “di centro”, da altri allenatori, da lui ispirati, ma lui non ha mai cercato di creare un sistema, un partito o quant’altro.

Zeman divulga per se stesso, lancia bottiglie nell’oceano, ma non ha mai tentato davvero di attraversarlo. In molti lo hanno seguito e compreso, ma più per una comunanza di sentimenti e per un’unità di intenti, – magari per l’aver dato voce a sentimenti eterni e malcelati, che non tutti sanno confessare. Zeman chiede soltanto di essere libero, e di testimoniare, in direzione ostinata e contraria: ed è per questo che egli è proprio lì del resto come sfinge e testimonianza storica indelebile.

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