Cagnano Varano, Paese sparito

by redazione

Nel Gargano  d’estate non sono mai riuscito a tornarci, il perché non saprei dirlo neppure adesso. Forse era il pudore dei ricordi a trattenermi o uno scrupolo segreto o un miscuglio di sentimenti messi insieme.

Cento volte ho avuto voglia di partire, ma poi, sempre nasceva qualche impedimento: la malattia di un figlio, un lavoro improvviso, vecchi impegni rinverditi da una telefonata. Ed ora ecco gli ulivi e le grotte, le masserie dai portali fumosi, i dolci tetti dei paesi, i pini dritti sui lucidi strapiombi di basalto, gli alberi di fico immensi con l’ombrello metallico delle foglie da cui pendono frutti morati e lattiginosi. È lo scenario dell’infanzia, e tutto nella lontananza sembra intatto e silente.

La pratica notarile che mi sospinge verso la casa paterna con l’urgenza degli eventi inelutta­bili, è dimenticata in fondo alla valigia. Ogni curva della strada pare ingombra di memorie e parla al cuore in sordina. La « nazio­nale » sale e scende, passa tra baluardi di roccia chiara maculata di rosa, profonda nelle valli strette e scoscese di quest’ultimo ramo d’Appennino; via via la terra si fa più avara, i frutteti nella geo­metria dei muri a secco divengono più preziosi e stenti, le casupole nelle forre di spini appaiono più basse e misere, e all’orizzonte c’è il respiro del mare. L’auto corre nella « terra di fuga », nel Gargano interno del mandorlo e del pero che l’emigrazione ha spogliato di uomini e vestito di brutte case: San Nicandro, Cagnano, Ischitella, Carpino; non un campanaccio che ti conforti con il suo tintinnìo lontano, non una capra assediata sui balzi di roccia in mezzo alle ginestre e ai ciuffi di lentischio; soltanto la campagna vuota nell’abbandono, e i cani che vanno a testa bassa per le cunette con le ossa in vista e la testa penzoloni. Il paese è mutato, pare un altro: la carrozzabile di colpo piega a gomito verso il cilestrino del lago e taglia fuori l’abitato come per l’incisione di un bisturi. Niente sgomenta più che il sentirsi estranei tra le cose che ci sono state care. Risalgo adagio il corso, nella lunga pigrizia del meriggio autunnale, e scopro i negozi nuovi con gli elettrodomestici in vetrina.

L’insegna dei Sali e Tabacchi rimbalza da una lastra funerea di marmo nero, mancano i gerani alle ringhiere dei balconi, le Scuole sono dipinte di un giallo fega­toso, al vecchio caffè hanno appeso la scritta « whisky a go-go ». Fon mi oriento e fatico persino a ritrovare la farmacia: la fòrmica splende gelida sopra una distesa di scatolini avvolti nel cellofan, i barattoli del citrato sono scomparsi, scale di acciaio inossidabile corrono attorno agli scaffali, lo speziale è giovane e porta un ca­mice immacolato. Mi domando se sia lecito entrare in una farmacia così lustra e chiedere un bicchiere d’olio di ricino. Chi diamine prende le purghe oggigiorno! La stitichezza si cura con le pillole; la nostra è l’ultima generazione che sia rimasta vittima del liquido vischioso e repellente di color topazio. Eppure l’olio era una di­sciplina: insegnava a soffrire. L’uomo al banco mi osserva con stupore: «Posso esserle utile, forse un “Va Sano”? », e sbircia la macchina accostata al marciapiede. « Su strade come queste le grosse cilindrate non vanno. Ieri una signora tedesca ha dato di stomaco proprio qui sul pavimento », e indica le piastrelle azzurre linde come il camice, come gli armadi, come i suoi denti bianchi che balenano dentro la barba corta. Gli antiemetici[1] non curano i mali dell’anima, eppure al paese ne ho comprato una scatola per viltà, per mostrarmi cortese e accomodante e poter mettere piede nella farmacia di Don Domenico senza destare sospetti o allarmi, come un ladro che torna guardingo nella casa che ha svaligiato sospinto dalla curiosità e dal timore. E non è forse ladro chi insegue i ricordi? Non ruba in un passato che non gli appartiene più? Non si aggrappa al tempo sentendo la vita scivolargli inutile  Il dottore serio, attento, avvolgeva il mio « Va Sano » in certi fogli sottili stampati in tricromia, e il frusciare della carta mi por­tava indietro di quarantanni. Posate sul bancone tarlato, rivedevo le mani di Don Domenico piccole forti e rugose, occupate a ripie­gare le cartine di chinino in polvere. E udivo la voce: « Queste am­mazzano anche la perniciosa, ricorda bene: una la mattina, una a mezzogiorno e ima la sera, prima dei pasti. Adesso ti dò anche le ostie »; subito infatti le cavava fuori dalla scatola di latta dove erano chiuse. Le ostie le faceva col ferro Donna Michelina, la moglie dello speziale, ed erano le stesse che consacrava il prete la dome­nica, quelle che usava anche mia madre per metterci le mandorle col miele a Natale. Specialità negli scaffali se ne vedevano poche, perché poche ed essenziali erano allora le malattie. Se la memoria non m’inganna, oltre la malaria, la polmonite e la viscerale non c’era altro. Don Domenico provvedeva insieme alla diagnosi e alla terapia: chinino per la terzana, mignatte per la polmonite e olio di ricino per la viscerale che in un parola sola abbracciava l’intero compendio di semeiotica, dalla gastrite alla cirrosi epa­tica. Il digiuno più assoluto era d’obbligo e faceva il resto.

Al me­dico si ricorreva nei casi mortali: l’incornata di un bove, il calcio di un mulo o la paralisi, anche perché Don Michele il condotto amava tenersi in casa nella sala d’aspetto lo scheletro ben ordinato e avvitato sul teschio, di Cataldo Citolda, un potatore che gli era stato fedele mezzo secolo. Tutti avevano conosciuto Cataldo vivo e le sue ossa fra le poltrone ci facevano una certa impressione, sicché preferivamo riparare da Don Domenico, almeno per i malanni lievi. Così la farmacia era posto di soccorso, sala chirurgica, clinica odontoiatrica, circolo di lettura, covo politico di fronda, e alla sera casinò di giuoco. La pipa in bocca, i pantaloni abbottonati alla meglio sotto il farsetto di lana, Don Domenico dall’alba a notte fatta governava quel suo piccolo regno che si chiamava apoteka,alla greca. Pochi avvenimenti, di quanti potevano capitarne in paese, gli sfuggivano. Lo speziale sapeva tutto e ingannarlo era difficile. S’apriva la vetrina sulla strada con un leggero tintin­nare di vetri e lui alzava gli occhi dalle carte del tresette. « Salvato’, il vino ». Il contadino appena entrato lo guardava allocchito spie­gazzando in mano la ricetta. « Voglio dire che se bevi a litri è inu­tile comprare le medicine. Salvato’, aspetta, faccio l’accusa e vengo ». L’altro mormorava un « a comodo vostro » e non si sentiva più volare una mosca. Don Domenico è stato l’incubo dei miei anni di ginnasio; arrivavo dal collegio a giugno, e lo trovavo sulla porta dell’apoteka come un nume tutelare. « Guagliò  che hai fatto, sei “passato” o no? ». E se gli dicevo che m’avevano promosso mi gratificava di una manciata di citrato. «Adesso vai da tuo padre e ricordagli di non far tardi alla partita ». Una sera d’agosto lo trovarono stecchito sopra un vaso di creta. Perché allora quasi sempre si moriva così, seduti, e la vita al paese per i grandi come per i piccoli non era che una lenta attesa. Si aspettava la carrozza della posta tirata dai cavalli in sudore con i passeggeri pigiati tra cumuli di ceste gabbie involti e panieri, come si aspetta un messaggio arcano o il segnale di un altro pia­neta. Le stagioni erano uno spettacolo da godere e le fiere una festa. Aspettare e sognare: il paese non dava altro e quel poco era tutto, finché non sopraggiungeva l’ultima terzana o l’ultima polmonite.

Il pacchetto è pronto, lo speziale giovane me lo porge ed esco fiutando un odore sparito: il vecchio tanfo della tintura di iodio. Intravedo sul fondo di un vicolo la casa dove sono nato ma il por­tone è chiuso, le finestre sbilenche stanno a fatica dentro le mura senza più intonaco e un gatto si lecca le zampe beato in mezzo alla scala. Come no? Potrei mettere la chiave nella toppa, girarla un poco a sinistra per evitare l’antico difetto della serratura, spa­lancarla nel buio e nelle ragnatele degli anni. E poi ? Ora so che non si doveva salire su quella carrozza tirata dai cavalli neri. Il paese è mutato perché l’abbiamo tradito; è cresciuto fuori di noi e rasso­miglia un poco alle città che fuggiamo. Nelle strade s’accendono i primi tubi di neon, un’auto strom­betta stizzosa al crocevia. Meglio andare, tornare forestiero fra gente che non si conosce, che non ti conosce.

Alfredo Petrucci


Alfredo Petrucci (San Nicandro Garganico12 marzo 1888 – Roma15 giugno 1969) è stato uno storico dell’arte, narratore e poeta italiano, oltre che incisore e disegnatore.

Biografia

Petrucci si laureò a Napoli in Lettere e Filosofia, entrando nella carriera delle Antichità e Belle Arti. Nel 1912 lavorò ad Ancona, poi a Siena e a Bari; nel 1922 si trasferì a Roma, dove rimase fino alla morte. Nel 1923 entrò come primo segretario nel Gabinetto Nazionale delle Stampe, di cui sarebbe diventato direttore nel 1940. Nel 1924 organizzò nella capitale, a Palazzo Salviati, una mostra di artisti pugliesi, che fece conoscere, tra gli altri, lo stesso Petrucci, il quale vi espose le sue due più note acquefortiBeethoven e Leopardi. Nel 1954 venne collocato a riposo con la qualifica di conservatore onorario dello stesso Gabinetto Nazionale delle Stampe. È scomparso nel 1969 a 81 anni.

Opere

Petrucci ha pubblicato molti libri e saggi. Particolarmente importanti sono i volumi dedicati all’incisione italiana, e cioè Il Quattrocento (1945), Il Cinquecento (1964) e L’Ottocento (1941). Ad essi va aggiunto almeno Gli incisori italiani all’estero (1958).

Fondamentale è il volume Cattedrali di Puglia, più volte ristampato, dal 1960 in poi, nel quale Petrucci, ponendo l’accento sugli elementi autoctoni della regione, sgombra il campo da errori e pregiudizi, mentre postumo è apparso Pernix Apulia (1971).

In ambito letterario, Petrucci ha dato alle stampe romanzi (La luce che non si spegne1921, e Le parole per tutte le ore1930), raccolte di novelle (La povera vita1914Romanzo di una primavera1945) e sillogi di poesia (Esitazione della sera1951). Non mancano dei testi destinati ai giovani, come Fra terra e cielo e Arcobaleno, editi dalla SEI di Torino, rispettivamente, nel 1953 e nel 1955.

Petrucci ha inoltre pubblicato saggi sulle principali riviste, come la “Nuova Antologia”, ha collaborato al Dizionario biografico degli Italiani della Treccani e al quotidiano romano “Il Messaggero”.

Come artista, ha realizzato centinaia di acqueforti e puntesecche; le sue opere si trovano in numerosi musei, in Italia come all’estero.

Al centro della sua produzione c’è un vivo amore per la bellezza, espresso in vario modo, mentre tra i temi spicca la nostalgia per la sua terra natale, rivista attraverso il filtro della memoria. La raccolta di novelle La povera vita, di recente ristampata, è in assoluto la prima ambientata nel Gargano.

Porta il suo nome la biblioteca comunale di San Nicandro Garganico. Nella Biblioteca Provinciale di Foggia si conserva un ricco fondo documentario, contenente tra l’altro lettere di importanti personaggi del Novecento italiano.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.