I paesi franco-provenzali del Subappennino Dauno

by Eugenio D'Amico

Faeto a 870 metri sul livello del mare è il comune più alto della Puglia; Celle di San Vito, con circa duecento abitanti, è quello meno popolato. Distano in linea d’aria poco più di un chilometro e mezzo, che seguendo la tortuosa strada  provinciale che li congiunge, diventano nove. Si trovano sui monti del Subappennino Dauno, in un territorio coperto di fitti boschi di faggi e di querce, e ricco di ruscelli e sorgenti di acqua pura che nei pressi dei paesi sono incanalate in antiche fontane. Il panorama che vi si gode, verso le cime più alte del Subappennino e sulle valli verso il territorio di Avellino e di Benevento, è purtroppo disturbato dalle pale eoliche poste sui crinali all’orizzonte, osceno contributo alla fame di energia della civiltà moderna, che spezza l’incanto di vivere in luoghi di altri tempi.

Strette scalinate che si inerpicano tra le case di pietra, vicoli che attraversano antichi archi, fontane di pietra nelle anguste piazzette, chiesette silenziose; d’inverno il profumo della legna bruciata nei camini, d’estate quello dei boschi, del fieno e dei fiori, i sapori genuini del cibo di una volta, a base di legumi, carne di agnello e di maiale (i prosciutti di Faeto sono eccezionali), di pasta fatta in casa, di pane impastato e portato al forno per la cottura a legna, riportano ad ancestrali ricordi il visitatore e suscitano incomprensibili nostalgie di un tempo mai vissuto.

Spesso isolati da un alto manto nevoso d’inverno e fuori comunque dalle attuali vie di comunicazione, i due paesi sembrano sospesi nella magica atmosfera del passato. Il loro isolamento li ha progressivamente svuotati degli abitanti partiti per cercare fortuna e lavoro altrove – anche Faeto non supera gli ottocento abitanti – e tuttavia d’estate si riempiono degli stessi emigrati che ritornano perchè se è difficile viverci è altrettanto difficile stare lontano da questi luoghi.

Faeto e Celle di San Vito sono uniti dalle comuni origini, dagli stessi costumi e dalla lingua francoprovenzale o, più correttamente arpitana, parlata  in Francia nella media valle del Rodano, nel Giura e in Savoia, nella Svizzera Francese e in Val d’Aosta ed in alcune valli del Piemonte. Come tale lingua sia giunta sul Subappennino Dauno è un tema che offre ancor oggi molti motivi di discussione.

L’ipotesi più accreditata è che i due paesi siano stati fondati da soldati provenzali di Carlo I di Angiò che combatterono in quei luoghi dopo la morte di Federico II e la sconfitta del figlio Manfredi, per eliminare le resistenze filoimperiali dei saraceni di Lucera, fedelissimi all’imperatore svevo. Essi, che probabilmente erano di stanza nelle vicine fortificazioni di Crepacore, a guardia dei passi attraverso cui la via Appia entrava in Puglia, ottennero dal sovrano angioino, interessato a insediamenti stabili di popolazioni a lui fedeli, di far giungere sul posto le loro famiglie. Nel tempo Crepacore perse la sua funzione difensiva e i francoprovenzali, lasciate le armi, diventarono contadini e quando il territorio divenne pericoloso ed insicuro per il continuo transito di eserciti in guerra abbandonarono il Casale allontanandosi dai valichi dell’Appenino. Così alcuni fondarono Faeto, il cui nome pare far riferimento alle faggete che coprivano la montagna, mentre altri scelsero di abitare sulla vicina collina le celle dove i monaci dell’ormai scomparso Convento di San Nicola, si rifugiavano d’estate per sfuggire alla malaria che si alzava dalle paludi del torrente Freddo e del vicino fiume Celone. Da queste celle e dal piccolo convento di San Vito eretto nelle vicinanze, nacque il borgo di Celle di San Vito.

I due centri, proprio per l’isolamento in cui vivevano, mantennero le antiche costumanze e, soprattutto, la lingua che, almeno fino a dopo l’Unità d’Italia, fu l’unica lingua parlata dei luoghi. Il progresso ed i conseguenti contatti portarono però ben presto ad aggiungere alla lingua occitana il dialetto pugliese necessario per i contatti con gli altri borghi della zona e poi ma, solo nella prima metà del Novecento, l’italiano che si diffondeva anche nelle campagne, anche come conseguenza della coscrizione obbligatoria che poneva in contatto giovani di ogni parte d’Italia. Il franco provenzale, ritenuto un inutile retaggio del passato, diventò sempre più la lingua degli anziani rischiando di scomparire, fino a che un orgoglioso desiderio di ritorno alla cultura delle origini non lo ha di nuovo posto all’attenzione anche dei giovani, suscitando un convinto movimento in sua difesa.

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