A mano disarmata, Federica Angeli contro la sicumera della mafia di Ostia. Così simile alla Quarta Mafia

by Antonella Soccio

“Dietro questo rumore c’è tanta roba. C’è la paura, la rassegnazione, il non mi impiccio”. Tutti hanno sentito, a Foggia, capoluogo della provincia della Quarta Mafia, nel chiostro di Palazzo Dogana, il rumore del tirar giù le tapparelle. Quel colpo secco ha lo stesso suono raggelante dell’omertà foggiana, ha la stessa vibrazione dell’ignavia succube, che solo di recente la squadra Stato sta scalfendo, con grande fatica e abnegazione.

Il rumore è sopraggiunto dopo che due spari nella notte hanno squarciato il silenzio della periferia di Ostia. 2013. “Tutti dentro, lo spettacolo è finito”. Tutti hanno obbedito all’ordine dei boss. Tutti, tranne Federica Angeli, cronista per le pagine romane di La Repubblica, che decide di denunciare quello che ha visto.

Ieri la giornalista, sotto scorta dalla sua testimonianza, ha raccontato la sua storia, le minacce subite, la sua forza, partendo dal libro “A mano disarmata” e dal film di Claudio Bonivento che ne è stato tratto con Claudia Gerini, nella cornice di un appuntamento legalitario organizzato dall’associazione I Fiori Blu di Alessandra Benvenuto. A dialogare con la cronista anche il procuratore capo della Procura di Foggia Ludovico Vaccaro e il giudice Costanzo Cea.

Una donna, una giornalista, una moglie e una madre che ha fatto una scelta unica, anche contro la volontà del marito, che fino all’ultimo ha tentato di dissuaderla, per il bene dei suoi figli. “Io scelgo di non abbassare la testa davanti ai boss e alla criminalità organizzata, non rispondo al comando di un boss. Scelgo di non essere omertosa per i miei figli e per me, questa è già una vittoria”, ha detto Angeli davanti ad un chiostro gremito.

“Qua vinciamo sempre noi, non lo vedi che con noi non vinci?”. Federica Angeli in un racconto vivido e personalizzato ha restituito in ogni dettaglio il suo vissuto. Non solo è una testimone di giustizia, ma è colei che ha scritto più di tutti in Italia della mafia di Ostia, con lunghi reportage ed inchieste, che sono state il canovaccio degli inquirenti.

Inchieste che l’hanno portata, a mano disarmata appunto, di fronte ai boss. E che oggi sono, insieme al libro e al film, il prodotto del suo essere sotto scorta, il segno civico e civile della lotta alla mafia, che è un esempio per tutto il Paese. Federica Angeli ha ricevuto il premio Marisa Bellisario per il coraggio con cui ha messo il proprio lavoro e la propria vita al servizio della legalità. Modello di giornalismo da indicare con forza alle nuove generazioni.

“Da qui non esci, dammi questa telecamera, mi ha detto una volta che si era accorto della luce del led. Sappiamo che c’abbiamo tre ragazzini, che dici? Cominciamo da quella piccola con gli occhi belli?”, questa la prima minaccia. Un intimidazione verbale, che ha sconvolto Angeli più per l’arroganza con la quale è stata formulata che per l’avvertimento in sé.

“Lì non ti capaciti, perché sei una giornalista di Repubblica, che non è proprio l’ultimo giornale del Paese. Non che i cronisti locali siano da meno, ma davanti ad un giornale nazionale…e invece c’era tutta la sua sicumera. Che sapessero che erano tutti nel palmo della loro mano è terrificante quanto la minaccia “uccido tua figlia”. Tutto il contesto era pazzesco, quel giorno inizia la mia battaglia contro la criminalità organizzata”.  

“Abito sopra la più grande sala scommesse di Ostia, le criminalità organizzate come la mia di Ostia o la vostra qui a Foggia hanno bisogno di ostentare il loro potere, ma non sono sciocchi. Sanno che dove si spara arrivano le guardie, hanno bisogno di controllare il territorio”, ha continuato.

Armando Spada la sequestrò in una stanza dello stabilimento che aveva sottratto a una famiglia perbene di Ostia, Ora è in carcere con l’accusa di mafia. Sembrava impossibile vincere contro di loro nel 2013. E invece Ostia e Federica Angeli hanno vinto.

Il suo libro, si chiude con una lettera ai figli. In questi mesi Federica Angeli ha scoperto cosa significa non poter più compiere la banale quotidianità. Duemiladuecentosettanta giorni sottoscorta. “Fare dei gesti semplici, come rincorrere il figlio per strada, esserci. Decidere in quale posto sedermi al ristorante, un gesto di una banalità piccola, che quando la perdi ne comprendi il valore. È stato difficile mantenere il sorriso con i bambini, a loro non doveva arrivare la violenza e la cattiveria dei clan”.

Il procuratore Vaccaro da par suo ha ricordato le affinità tra la mafia ostiense e quella di Capitanata. Anche sul Gargano le infiltrazioni mafiose hanno disseminato della loro violenza gli insediamenti turistici, imponendo pizzo sotto forma di assunzioni e non solo. Le due mafie hanno la stessa arroganza. “Ricordo due episodi- ha detto Vaccaro- il primo nei confronti di un ingegnere, il criminale va a trovarlo sul cantiere, lo schiaffeggia e gli chiede il pizzo sotto forma di assunzioni. Il secondo sempre ai danni di un imprenditore: il criminale gli mostra il telefonino e gli dice: guarda che telefono al vostro socio, lui già paga. Le serrande che si abbassano sono un comportamento abituale anche qui, è uno stare di spalle. Un atteggiamento culturale”.

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