Bocciate mia figlia! La storia di Francesca Sofia

by Paola Manno

Qualche giorno fa, sfogliando una testata nazionale, un titolo ha attirato la mia attenzione “Bocciate mia figlia”. Diciamoci la verità, questa è una frase che pochi genitori avrebbero il coraggio di pronunciare, soprattutto dopo il periodo che abbiamo affrontato e in cui sono emerse tutte le criticità della scuola italiana.

Per i genitori di ragazzi in età scolare questo è stato un periodo difficile, non solo a causa della gestione del tempo in casa, ma anche per quella che in gergo tecnico viene chiamata DAD, ossia la didattica a distanza. La scuola non poteva fermarsi e ogni Istituto, chi prima chi dopo, ha messo in moto una serie di procedure per garantire agli alunni di poter proseguire gli studi. Sono stati mesi in cui milioni di genitori si sono ritrovati a collegarsi a un pc, a scaricare schede e rinviarle agli insegnanti, mesi di applicazioni scoperte e di telefonate disperate, di spiegazioni prima apprese in tutorial e di lotte con caratteri oppositivi o più o meno collaborativi.

Oggi che la scuola è al termine ci ritroviamo a pensare ai giudizi, ma soprattutto alla ripresa. “Recupereranno l’anno prossimo!” ci siamo detti in molti senza pensare a tutti quei bambini che non hanno le capacità di recupero dei compagni. Ancora una volta sono i più deboli quelli ad esser stati dimenticati. Lo dice a gran voce Francesca Sofia, autrice di una lettera pubblicata sul Corriere della Sera il 18 maggio, madre di Beatrice, 10 anni, affetta da una grave forma di epilessia farmacoresistente che ne ha rallentato lo sviluppo psico-motorio.

La lettera denuncia il trattamento ottuso e formalistico, totalmente indifferente ai suoi bisogni che è stato riservato a sua figlia.

Dalla chiusura della scuola, il 29 febbraio, al 29 aprile, giorno in cui Francesca decide di scrivere una mail al Provveditorato agli studi, con in copia il dirigente scolastico della scuola di Beatrice, la Scuola Primaria Antonio Scarpa di Milano, la bambina non ha avuto alcun contatto con i suoi docenti curricolari, e solo 6 videochiamate con l’insegnante di sostegno (meno di una a settimana). “Mi chiedo se la sostituzione degli insegnanti con una bravissima educatrice, che non è un’insegnante, vale solo per Beatrice o se questo privilegio è toccato a lei perché tanto la bambina non capisce la differenza tra un’insegnante e un’educatrice” denuncia Francesca. Tra l’altro le attività proposte all’alunna sono state, secondo la madre, profondamente offensive dell’intelligenza di Beatrice, e non ne è stata richiesta la restituzione, e questo la bambina lo ha percepito rifiutandosi di continuare a svolgere le attività.

Io credo – mi dice al telefono Francesca– che ci sia stato il tempo di capire, di sperimentare. Non pretendevo chissà che, ma almeno una pianificazione, una tabella di marcia, avrei voluto un sistema più presente, tutto questo è mancato. Sa, mio marito ed io abbiamo preparato un grafico per mostrare come, dalla data in cui abbiamo alzato la voce, è aumentato il numero dei contatti da parte dei docenti. È solo quando il Corriere, Gramellini, la trasmissione La Vita in diretta Il Giornale e Quarto Grado hanno parlato di noi, che la scuola ha intensifico i contatti con Beatrice coinvolgendola in attività con i compagni e, talvolta, con gli insegnanti. Ma a che prezzo? Abbiamo dovuto mettere la nostra vita privata davanti a tutti per vedere riconosciuto un diritto fondamentale”.

Quello che mi colpisce in questa storia è fondamentalmente un aspetto: la contrapposizione tra “il fare” (o almeno il “battersi per fare”) e il “restare fermi”. Da una parte io vedo una donna che si muove, che ricerca, che riflette, che rivendica i diritti di sua figlia, che scrive; dall’altra c’è una persona che rappresenta un’Istituzione che invece resta ferma, non si muove di un passo, non va incontro alle esigenze di un’alunna, peggio ancora (e in questo, forse, c’è il vero fallimento) perde un’occasione importante di confronto.

Francesca è una donna di scienza, laureata in Biologia Molecolare, specializzata in neuroscienze, che ha studiato Management ed Economia Sanitaria alla Bocconi, diventando manager della ricerca biomedica. Ha lavorato per anni nell’ufficio scientifico di Telethon. E nel 2014, a seguito della scoperta della patologia di Beatrice, ha deciso di lasciare il suo lavoro e si è dedicata alla tutela delle persone con epilessia. Ha, poi, anche fondato una start up, Science Compass, che si occupa di servizi e consulenza in ambito di biomedico. È membro del Comitato Direttivo Europeo della più grande associazione internazionale per l’Epilessia, e da anni mette le sue competenze a disposizione della causa, anche come portavoce a Bruxelles di una questione che riguarda mezzo milione di persone in Italia e 50 milioni nel mondo (questo è il numero di persone che soffrono di epilessia); è una forma di impegno preziosissimo e un’assunzione di responsabilità emblematica.

 “Sapevo di avere gli strumenti per poter portare avanti questa battaglia e mi sono sentita in dovere di farlo, per mia figlia e per tutti gli altri“, aggiunge. All’inizio pensavo di lavorare e lottare per la “cura”. Ma la cura fa parte del futuro, invece con la malattia si vive giorno per giorno. E nessuno mi può assicurare che per mia figlia una cura arriverà. Per questo mi impegno affinché lei abbia il presente migliore possibile e tutte le opportunità di cui ha diritto”.

In questi mesi la scuola ha improvvisato. Non c’è stato un percorso strutturato e nemmeno la definizione di obiettivi su cui valutare eventuali progressi o regressi della bambina. Così, dopo aver consultato i terapisti e la neuropsichiatra che ha in carico la riabilitazione cognitiva della bambina, Francesca ha proposto alla scuola di trattenerla nella classe quarta per poter ricevere l’istruzione che le spetta, perché la capacità di recupero di Beatrice non è paragonabile a quella dei suoi compagni.

Le bocciature programmate, concordate tra la famiglia e la scuola, sono largamente praticate nella scuola italiana, se vanno incontro all’interesse del bambino. La risposta del dirigente scolastico è stata molto chiara “Il decreto n. 22 dell’8 aprile stabilisce la promozione di tutti gli alunni, anche in presenza di insufficienze e comunque la scuola Clericetti non ha mai preso in considerazione la bocciatura di un alunno disabile durante il percorso scolastico”. Ha riportato le parole della normativa: come a dire “Così è e così si deve fare”.

Di fronte alla richiesta di una famiglia non si è fatto domande, non ha cercato risposte, alternative, un confronto, non ha pensato a quello che sarebbe stato meglio per la sua allieva, ha scelto il quieto vivere, ha scelto di restare fermo. La richiesta di Francesca poteva essere una grande occasione di riflessione sulle esigenze speciali di alcuni bambini, che sono numerosissimi nelle scuole italiane e che sono stati i più penalizzati dall’emergenza. La scuola di Beatrice avrebbe potuto essere la bandiera dei diritti di questi bambini, come quella che abbiamo appeso alle finestre scrivendoci “andrà tutto bene”. E invece è stata l’opportunità persa che si celava nell’estrema eccezionalità e difficoltà della situazione.

Penso ai corridoi di quella scuola, sono sicura che sono pieni di cartelloni che urlano i diritti dei bambini – il diritto ad avere un nome, una famiglia, il diritto allo studio, il diritto a non essere discriminato…- tutte le scuole d’Italia ne sono piene, i diritti li insegnano a partire dalla seconda elementare, e mi chiedo: ma nella pratica, nelle situazioni reali, che cosa succede?

A detta dei terapisti, Beatrice ha tante potenzialità ancora da esprimere, e se non le mettiamo a frutto adesso, andranno a perdersi. Quello che l’istituzione scolastica non capisce è che una gestione impropria adesso procurerà danni irreparabili al futuro di Beatrice. Questa è la mia battaglia, spiega Beatrice.

Una battaglia che sta avendo successo, perché qualche giorno fa è stato approvato al Senato un emendamento al Decreto Scuola che riguarda la possibile re-iscrizione dei bambini con bisogni educativi speciali, alla stessa classe dell’anno in corso, L’emendamento sta per essere approvato alla Camera e diventare legge. Eppure questo è un successo che lascia l’amaro in bocca.

Quando le chiedo quali siano state le reazioni al polverone mediatico che ha alzato nei giorni scorsi, Francesca mi risponde “è stato sconvolgente”. Penso immediatamente a fiumi di messaggi di solidarietà, alle manifestazioni di empatia che avrà ricevuto “Sconvolgente” è una parola che ripete più volte. “Da una parte c’è stato un grande sostengo di amici e colleghi, dall’altra un silenzio sconvolgente. Non c’è stato un solo messaggio dal circuito dei genitori, del personale docente, dalla scuola”.

Durante tutto il corso della telefonata ho pensato al tono sereno e grintoso con cui Francesca mi ha raccontato ogni aspetto della vicenda; “mia madre diceva sempre che io anche da bambina una ne pensavo e 100 ne facevo” ricorda per descriversi in poche parole. Ha ripetuto due volte una frase che fa male al cuore “so bene che non ci sono cure per mia figlia” senza soffermarsi sui sentimenti che ci sono dietro a questa affermazione. “È sconvolgente” lo ripete invece con la voce piena di emozioni contrastanti.

C’è una parte che razionalizza, ma c’è anche, soprattutto, un lato umano, delle aspettative umane. Ho come l’impressione che Francesca, da donna razionale, preparata e attenta qual è, abbia preso atto della situazione, ma sul piano emotivo è invece rimasta atterrita dall’egoismo e dall’indifferenza che ha riscontrato.

Ricordo che a marzo, nella chat di classe, a un certo punto ci sono state varie lamentele da parte dei genitori per la mole di schede da stampare e per varie difficoltà nell’utilizzo di computer e tablet. Io ho proposto di contattare la scuola per capire che tipo di supporto potesse essere previsto per agevolare la didattica a distanza e fare in modo che i nostri figli vi potessero accedere.Un genitore ha scritto una risposta che non dimentico -Non è grave che i bambini perdano qualche ora di grammatica, la recupereranno con gli interessi a settembre. Che vanno privilegiati i metodi in cui i bambini possono operare autonomamente perché dal punto di vista educativo è un valore immenso. In questa situazione straordinaria, i bambini stanno vivendo una preziosa occasione di crescita umana.”

“Ciò di cui questo genitore e tanti altri non si rende conto è che il lavoro autonomo, per alcuni bambini è impossibile. Mia figlia non riuscirà a recuperare con i tempi degli altri ciò che ha perso in questi lunghi mesi. Ma nelle parole di quell’uomo, che tra l’altro è un dirigente scolastico, quindi una persona che dovrebbe conoscere meglio di tutti la realtà dei bambini con difficoltà di apprendimento, io ho letto una completa indifferenza. Beatrice non esiste, è stata completamente dimenticata”.

Ecco che il gruppo dei genitori su whatsapp si mostra come un piccolo spaccato di una società che si dimentica dell’altro, che anzi, paradossalmente, vuole farsi portavoce di un messaggio positivo e di speranza proprio ammazzando la speranza di un mondo giusto.

Forse dovremmo ripartire da qui, dalle nostre belle idee di “occasioni umane” e dalla convinzione che le esigenze, le fragilità e i talenti dei nostri figli siano gli unici ad esistere.

Io non conosco Beatrice, ma immagino una bambina sensibile e piena di vita, come sua madre, che è una donna che a un certo punto mi ha detto ridendo “io sono una persona antipatica a molti” (perché non hai paura di dire la verità, penso all’istante). Francesca mi fa pensare a tutte le comode battaglie da salotto che vivono nei discorsi delle persone che si credono buone e giuste, a una frase di Gioconda Belli in La donna abitata “A volte vi odio perché siete coraggiosi. A volte vorrei essere come voi. Quella che io credevo fosse la mia ribellione, oggi la trovo insulsa”.

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