Don Virginio Colmegna e il Natale degli sguardi: «La speranza, oggi, deve essere ostinatamente coraggiosa»

by Felice Sblendorio

Don Virginio Colmegna parla di sogni. E di profezie. La sua Chiesa è in costante ricerca di una rivoluzione, di una giustizia sociale capace finalmente di limitare l’impatto delle diseguaglianze e delle marginalità che, da troppo tempo, si trasformano in esclusioni.

Da diciassette anni è il presidente della Casa della Carità di Milano voluta dal Cardinale Carlo Maria Martini per promuovere accoglienza e cultura, insieme. Da più di cinquant’anni è un prete di comunità. L’incontro con l’altro è una costante della sua esperienza: dai detenuti ai malati psichici, dai bambini ai migranti, dai senza dimora agli ex terroristi. bonculture, in occasione delle festività del Santo Natale, ha intervistato Don Virginio Colmegna.

Don Virginio, un altro Natale segnato dall’incertezza e dalla voglia di ritrovarsi. Che Natale ha vissuto?

Un Natale intenso, scandito da una riflessione sulle cose intima, profonda, quasi ingenua. Nonostante il periodo travolto e dominato dalle tante paure, dalle difficoltà e dai messaggi di morte, di chiusura e di frammentazione, la narrazione di un bambino che nasce è sempre un messaggio di speranza, di rinascita. È un richiamo forte per quella che chiamo energia spirituale, sempre più profonda. È stato un Natale di sguardi, di commozione e di sogni. Papa Francesco richiama molto spesso il tema del sogno. Che è il pezzo dell’utopia che trattiene la speranza.

Tutti siamo in attesa di una speranza collettiva dopo un momento così complesso. La speranza che orizzonte prospetta?

Prospetta un quotidiano che deve essere assestato di sguardi comprensivi e fiduciosi. Il futuro sarà sicuramente immerso dal dolore, dalla fatica e dalla debolezza, ma bisogna continuare a credere in un domani più conciliante. L’umanità è attraversata e colpita dalla vulnerabilità, ma oggi più che mai bisogna partire dalle fragilità per riorientare le nostre comunità. La speranza, oggi, deve essere ostinatamente coraggiosa.

Le crisi, come quella prodotta dalla pandemia, non sono mai dei tunnel da cui si esce nello stesso modo in cui si è entrati. Riusciremo a mettere in discussione modelli di convivenza oramai sfibrati?

All’inizio della pandemia si diceva: nulla sarà come prima. Ora, invece, il rischio è proprio quello di comportarsi come prima. In fondo, anche questo Natale ha ritrovato la sua natura consumistica. Abbiamo bisogno di iniettare una capacità etica, una solidarietà universale, un monito appassionante e disinnescare questa globalizzazione dell’indifferenza. Credo sia utile ricostruire un patrimonio formativo. La Chiesa non è, come dice Francesco, una Ong: guai ad essere semplicemente produttori di aiuto per le marginalità. La Chiesa deve custodire interrogativi profondi, inquietudini. Quando il Cardinale Martini volle la Casa della Carità mi disse di condividere la povertà come inquietudine, come un interrogativo. La deriva assistenzialistica ci rende testimoni di bontà apparenti, ma non incide nei processi di cambiamento, in quegli interrogativi laceranti che, come sottolineava Martini, devono custodire la sapienza della carità.

Lei parla di radicalità per provare a raddrizzare questa società. Perché servono scelte radicali?

La radicalità non richiede compromessi, ma profezie. Serve una radicalità per auspicare gesti forti e scelte coraggiose nella mediazione con la politica. Serve radicalità perché non bastano i fotografi e i verbalizzatori della realtà, ma persone operose che cambiano a poco a poco il quotidiano. Servono i piccoli gesti, integrati in un desiderio e in un cambiamento globale. Thomas Merton diceva che il cristiano è uno che sa spaccare il suo cuore in due per farvi entrare il mondo intero. Bisogna seguire questa modalità: l’universalità del bene come orizzonte, come obiettivo comune.

Le periferie non sono solamente quelle urbane o geografiche, ma anche quelle dell’anima. Quante periferie dell’esistenza ha incontrato nella sua vita?

Tante. La mia vita è stata molto segnata dal mio primo mandato da prete. Gli undici anni in comunità con i dimessi di un ospedale psichiatrico in un quartiere di periferia come Sesto San Giovanni mi hanno insegnato a comprendere le debolezze, le fragilità, le solitudini e i drammi radicali dei tanti perché a cui non sappiamo dare risposta. È stato un grande insegnamento. Da quell’esperienza ho sempre portato le storie che ho incontrato, i volti e i fallimenti al cospetto del mio crocifisso. Dove si collocano queste storie? Nelle viscere, in un cuore che deve saper ricercare un senso e una propria intimità.

Occuparsi di povertà è stata una conseguenza o è il significato della sua fede?

È la ricerca della mia fede. È sostenuta anche dall’educazione familiare, l’educazione di una famiglia povera con un padre invalido e una madre operaia. Mi hanno insegnato la dignità della povertà. Che è sguardo, capacità di ascolto, direi anche poesia. La povertà la sento mia, mi è fraterna.

Molto spesso viene derisa. Perché la povertà fa così paura?

Perché è stata cancellata dagli ideali di riferimento. È la ricchezza, in fondo, il bene desiderato, voluto, comprato. Non c’è mai una beatificazione delle marginalità, dei poveri, di una sobrietà del cuore. Nella povertà si concentrano tutti i fallimenti della società individualista. Non si scava mai il valore della sobrietà, ma solamente quello della quantità, dell’eccesso. Quando c’è un vuoto o una mancanza, però, credo sia indispensabile recuperare il gusto della semplicità, la beatitudine della povertà.

La salvezza passa per il prendersi cura dell’altro?

La salvezza è un’interpretazione della prossimità. Che non è solo il mio vicino, ma è una relazione ampia di cura e di affetto. Non a caso credo sia importante l’altro, colui che è capace di insediarsi dentro di te facendo maturare sentimenti di amicizia, affettuosità, convivenza. La povertà, da questo punto di vista, è un grande dono, ma deve essere una relazione di reciprocità, non di potere. Si dovrebbe aiutare chi non sta bene e avere il piacere di condividere la stessa tavola, ad esempio. Bisogna condividere, appartenere, sfidare l’impossibile della vita di ciascuno, compresa la solitudine e la follia. Stare assieme è la cosa più importante. Molti chiedono prima un’amicizia, e poi un aiuto.

Don Lorenzo Milani si domandava in una lettera: «Quante persone si possono amare?». Lei, in questa lunga vita, quante persone ha amato?

Amato, pochissime. Pochissime rispetto a quante persone ho incontrato. Tantissime, invece, si sono insediate nella mia vita con i loro dolori e le loro sofferenze. C’è un episodio in “Esperienze Pastorali” in cui Don Milani racconta l’arrivo di una famiglia con disabili. Dice che è nata lì, in quel legame, tutta la visione pastorale delle sue esperienze. Sono le piccole esperienze che ci fanno guardare gli altri in profondità.

Lei ha raccontato, quasi in una cronaca, il tempo sospeso della pandemia. Quel silenzio è stato fecondo?

È stato molto fecondo. Tutti noi abbiamo molta fretta di possedere risposte giuste. La prima domanda, invece, è porsi delle domande. La ricerca deve essere appassionata. In quel silenzio ho ritrovato una voglia autentica di custodire spiritualità. Ha evidenziato poi interrogativi sulle fragilità. E interrogarsi sulle debolezze fa parte dell’esperienza cristiana alla sua radicalità.

Più volte ha ricordato la Chiesa del grembiule di Don Tonino Bello: «Una chiesa povera, semplice, mite. Che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità». Perché, alla Chiesa, serve un travaglio?

Per esistere. La Chiesa è sempre in travaglio. Anche Papa Francesco sta dando alcuni scossoni in totale solitudine. La Chiesa è umile se sa di non possedere certezze, ma debolezze. La Chiesa deve continuamente ricostruire. Abbiamo tanto bisogno di una Chiesa mite, capace di sradicare l’odio. Bisogna amare il prossimo, ma anche scavare radici per amare il nemico e rendere il conflitto mite. E poi abbiamo bisogno di una Chiesa della gratuità. Paolo VI parla di evangelizzazione del silenzio: perché, in nome di chi e per chi lo fai. Dunque, vivere la carità come bene fondamentale che avvolge la giustizia, che fa cantare la giustizia, che la fa diventare parola giusta.

Una carità che non si interessa del consenso, che non è comoda.

Esattamente. Una volta andai dal Cardinale Martini e parlai della carità come una parola retorica, elemosiniera. Lui mi disse che la carità avvolge la giustizia, la spinge laddove non c’è utilità sociale. La carità scandaglia le domande inevase anche quando non c’è consenso. Deve essere questo il travaglio della nostra Chiesa.

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