I fiori blu, il premio letterario che cerca di cambiare la narrazione della Foggia brutta, sporca e cattiva

by Claudio Botta

Dal diamante non nasce niente, dal letame nascono i fior(i)”. La strofa di Via del Campo è una delle più celebri e significative dell’intera carriera di Fabrizio De André. E si può associare, a più di cinquanta anni di distanza, a una piccola, preziosa realtà prodotta da e in una città tormentata, difficile, trascinata a fondo da infinite problematiche diventate emergenze e contraddizioni impietose, ma che sa riemergere e non si accontenta di restare a galla. I fiori blu, creatura di Alessandra Benvenuto, non è nato per essere uno dei tanti premi letterari disseminati in ogni angolo di una penisola dove ci sono ormai più scrittori che lettori, e già la citazione del romanzo di Raymond Queneau (tradotto da Italo Calvino nell’edizione italiana) ne era una trasparente e raffinata dichiarazione d’intenti.

Già nel 2020, prima edizione, si rivolgeva a una platea di grandi firme della narrativa, della saggistica, del giornalismo, per affacciarsi sull’orizzonte della contemporaneità nelle sue molteplici sfumature, e il riscontro ottenuto è stato sorprendente. E’ andato avanti anche negli anni successivi, nonostante la pandemia e le esistenze e le abitudini stravolte, e ha saputo adeguarsi ai collegamenti e alle presentazioni da remoto, alle misure di protezione da adottare, alle presenze virtuali eppure così necessarie, perché era a rischio non solo la vita ma anche la salute mentale delle persone, e la voglia di una comunità numerosa ma silenziosa di aggrapparsi a qualcosa, in attesa del ritorno a una normalità ricca di incognite e speranze.

E’ andato avanti ma non è andata avanti Foggia, diventata la città della Quarta mafia, e passata dalla polvere nascosta sotto il tappeto e a decenni di fari mediatici accesi distrattamente, a intermittenza, alla sovraesposizione e all’overdose da cronaca nera. La narrazione, lo storytelling orientato e schiacciato verso un’unica direzione, troppo difficile per tanti il racconto della complessità, dei presìdi attivi di resistenza: in fondo sono solo i poeti che cercano le perle in fondo ai pozzi, spiegava Antonio Tabucchi, non i cronisti, non gli opinionisti da tastiera, non gli estensori di business plans che non hanno il capitale umano tra i parametri di riferimento, e nemmeno quello affettivo. Alessandra ha cercato e trovato una fuga da questa narrazione, e ci è riuscita attraverso l’ambizione: alzare subito l’asticella a un’altezza impensabile, la dimensione nazionale e autori di (vera) fama e successo che l’hanno seguita e hanno creduto in lei.

foto di Samuele Romano

La finale della quarta edizione, nell’elegante cornice del Parco dell’ateneo, è stata un successo non solo personale ma della comunità brutta, sporca e cattiva, nel cui letame è nato un fiore colorato di speranza e profumato di riscatto, che va però curato e non semplicemente ammirato. Sul palco con lei Neri Marcorè a condurre, in platea autorità di ogni ordine e grado, il presidente della giuria tecnica Paolo Mieli, Marco Ferrante, le altre componenti Sandra Petrignani e Ritanna Armeni: personalità di spicco nel panorama nazional-intellettuale che non hanno incontrato lanzichenecchi nel loro viaggio verso la città sbeffeggiata da Selvaggia Lucarelli dalla Columbia, e nemmeno una Clizia nella sala d’attesa della stazione ferroviaria. I libri e gli autori premiati uno spaccato significativo di mondi in fermento, sospesi nel tempo e proiettati al futuro: Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino (Giuria popolare), romanzo incluso nella cinquina finale del Premio Strega; Self-Portrait suggestivo saggio di Melania Mazzucco sull’arte al femminile nella storia (premio speciale della commissione scientifica); il caso letterario dell’anno in Francia e in Italia Il mago del Cremlino (premio giuria tecnica) di Giuliano da Empoli, cheha ispirato dopo la premiazione un’analisi geopolitica decisamente ispirata sugli scenari aperti dalla guerra in Ucraina, non semplici battute di ringraziamento. Così come le scrittrici apparse in precedenza hanno offerto ulteriori spaccati di sensibilità e creatività, mostrando di meritare il successo che accompagna ogni loro nuova uscita e il voto delle centinaia di studenti coinvolti nell’iniziativa.

Mentre a qualche chilometro appena di distanza, tra i Palazzi di Comune e Prefettura, simboli della pubblica amministrazione e dello Stato rappresentato al livello più alto in ambito locale, una rissa tra ragazzini e uno di loro spedito al Pronto soccorso in gravi condizioni spegnavano di colpo le luci e sembravano consegnare Foggia, ancora una volta, al suo buio. E dettavano ai candidati sindaco e alle coalizioni in competizione per il rinnovo dell’amministrazione comunale, dopo l’archiviazione della precedente per infiltrazioni mafiose e il relativo commissariamento, le priorità per i rispettivi programmi: la sicurezza e la cultura, che devono nutrirsi l’una dell’altra, contaminarsi, per non scadere nella retorica da claim elettorale e nella banalità.

Perché sono termini che contengono tutto e nulla, e vanno riempiti di contenuti, di progetti, di investimenti, di analisi, di collegamenti in circolo.

Perché cultura può essere anche panem et circenses, distrazione di massa per continuare a gestire a proprio piacimento interessi privati depredando risorse pubbliche e abbattendo i paletti che dividono la legalità dalla sua negazione; per continuare ad avere l’accesso esclusivo all’interruttore delle emozioni e delle strumentalizzazioni.

I fiori blu sono invece pensieri e parole che volano alto e gettano semi verso il basso, da raccogliere e piantare ovunque, nelle periferie che devono diventare centro, nelle aule di scuole e università e negli angoli di disperazione e disagio, nei cortili di giochi affannati e spensierati e nelle strade macchiate di sangue, nei cuori di ghiaccio e nei cuori che battono accelerati di stupore. Sono la Foggia per come è, perennemente sospesa tra realtà e incubo, e tra realtà e sogno.

la foto di copertina è di Samuele Romano

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