«I livelli di qualità della vita dell’Europa dovranno affidarsi completamente alle rinnovabili». Giuseppe Milano di Greenaccord e il Tempo del Creato

by Anna Maria Giannone

«L’ecologia integrale e l’economia civile sono le due facce della stessa medaglia: quella di una realtà che deve essere aumentata dalla sostenibilità e dalla prosperità. Se non vogliamo esacerbare le tensioni sociali nel Paese, dobbiamo sciogliere le contraddizioni epocali e intraprendere processi di conversione ambientale». Sono le parole di Giuseppe Milano, ingegnere e segretario generale di Greenaccord, protagonista nei giorni scorsi del forum del XVI Forum dell’Informazione per la Custodia del Creato – promosso per la prima volta a Bari e in Puglia da Greenaccord Onlus, appunto con la Diocesi di Bari-Bitonto e la Regione Puglia.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato.

Il tempo del creato: abbiamo vissuto 2 anni in cui la natura ci è stata ostile. Un virus invisibile ci ha attaccato. Cosa avrebbe fatto San Francesco? Avrebbe chiuso le chiese? Avrebbe rinunciato ad abbracciare e confortare gli infermi?

«No, la natura non è mai ostile all’uomo, semmai è il contrario. Viviamo oggi l’Antropocene, ossia l’era antropologica contraddistinta dall’alterazione degli equilibri della biosfera da parte degli esseri umani che per sostenere il proprio tenore di vita, soprattutto in Occidente, continuano a perseverare nel pensiero che le risorse naturali (come l’acqua e il suolo) siano illimitate. Per decenni abbiamo vissuto oltre le nostre possibilità e forse è arrivato il momento di riconoscerlo. “Bisogna fare pace con la natura”, come dice il Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres, perché siamo noi che non possiamo vivere senza la natura, e non viceversa, recuperando quella sensibilità etica ed ecologica che proprio San Francesco ci ha consegnato».

Laudato sii, cosa oggi può fare il mondo laico per cambiare il pianeta così come chiedono i giovani dei Friday for future?

«Non abbiamo più molto tempo. Gli scienziati dell’Ipcc – il panel intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – prevedevano una accelerazione catastrofica degli eventi estremi entro il 2050: ora questo limite temporale è stata anticipato al 2030, termine ultimo anche per conseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile, perché alcuni processi come il degrado dei suoli o la perdita di biodiversità stanno diventando irreversibili. Per rispondere all’imperativo categorico della giustizia climatica evocato ad alta voce dalle più giovani generazioni di tutto il mondo occorre intraprendere, come diceva Alex Langer, quella necessaria e indispensabile “conversione ecologica socialmente desiderabile” dei nostri modelli di produzione e consumo per la quale l’economia e l’economia diventano le due facce di una stessa medaglia, quella di una realtà aumentata dalla solidarietà intergenerazionale e dalla sostenibilità socio-ambientale».

Si parla di “un nuovo rinascimento sociale ed ecologico”, tuttavia è stata già bocciata da più parti la filosofia della decrescita felice, in cosa consiste dunque tale cambiamento? E soprattutto come potrà coniugarsi con la voglia di crescita e sviluppo sociale e materiale dei paesi Bric e degli altri stati di Africa e Asia?

«Nessuno si salva e si salverà da solo. Se non comprendiamo tutti, ciascuno per le proprie responsabilità personali o professionali, questa grande post-verità ereditata dalla crisi pandemica, non ci sarà processo economico o finanziario che produrrà progresso e prosperità. Oggi il continente africano è il meno responsabile dei cambiamenti climatici – il 75-80% del Pil mondiale è concentrato tra Europa e Stati Uniti – eppure risulta essere quello più danneggiato dalla metamorfosi delle temperature medie, tra siccità, desertificazione, land grabbing, perdita di biodiversità. Per l’aumento della magnitudo di questi fenomeni, infatti, la Fao stima che almeno 140 milioni di profughi climatici possano raggiungere l’Europa entro il 2050. Quale sarà la risposta dell’Europa, che saccheggia l’Africa da decenni? La risposta non è nella violenza dei muri, ma nella fratellanza dei ponti, in quella prossimità che si fa sinonimo di una sostenibilità sincera e duratura. Alcuni grandi Paesi come Cina e India, oggi ancora trainati dal carbone, stanno comprendendo che se vorranno raggiungere i livelli di qualità della vita dell’Europa dovranno affidarsi completamente alle rinnovabili, a paradigmi innovativi e generativi come l’economia circolare e alle tecnologie eco-compatibili di ultima generazione riducendo drasticamente le emissioni di gas serra in atmosfera, nonché la produzione di merci usa e getta».

I tanti movimenti territoriali a difesa dell’ambiente bollati spesso come sindrome Nimby, possono essere definiti sentinelle del creato?

«Per molti oggi la sostenibilità è una moda, il vestito ideale per la “biennale dell’apparenza” o per il “festival dell’io”. Anche in molte associazioni pseudo-ambientaliste si nascondono, purtroppo, molti profeti di sventura, incapaci di estrarre dal basso e dai territori una visione strategica tanto pragmatica quanto olistica che apra le strade dell’avvenire. La liturgia del greenwashing non ha prodotto nuovi pastori, ma solo impostori – spesso benedetti anche da giornalisti poco giornalisti – che hanno diffuso una idea gattopardesca di cambiamento. In molti non hanno capito, o fingono di non capire, la gravità del momento che stiamo attraversando. Negli ultimi 800mila anni non abbiamo mai avuto in atmosfera la concentrazione di gas serra che si registra oggi: oltre 418 parti per milione, a causa della quale, pertanto, abbiamo fenomeni estremi sempre più intensi e frequenti – si pensi alle ondate di calore di questa estate, con una crescita esponenziale di incendi – che andrebbero affrontati con una coscienza e fermezza diversi. Nel Pnrr, sembra paradossale ma è così, nonostante le ingenti risorse disponibili non emerge con chiarezza tale improcrastinabile visione di Paese che si vuole al 2050, quali saranno le politiche industriali o culturali di riferimento per ricollocare il nostro Paese tra le eccellenze mondiali. L’Italia ha un deficit di infrastrutture notevole: dagli impianti di compostaggio dei rifiuti organici al Sud che potrebbero concorrere allo sviluppo delle filiere dell’economia circolare agli hub integrati della mobilità intermodale e sostenibile nei capoluoghi regionali o delle Aree Metropolitane, fino ai poli rigenerati del manifatturiero e del tessile e dell’artigianato che oggi per le materie prime sono dipendenti dall’estero. Il “caro bollette” di queste ultime settimane, che tanto sta facendo preoccupare cittadini e imprenditori, nasce da questa strutturale cecità delle nostre classi dirigenti: l’incapacità di progettare e realizzare, nei dettami dello sviluppo sostenibile, i sistemi energetici o tecnologici che servono al Paese e trainano le comunità verso un benessere equo e solidale. E’ dalle persone che bisogna ripartire. Se non ricostruiamo un Noi, solidale e corresponsabile, non ci sarà futuro».

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.