Il “Rinascimento europeo” di Gianni Cuperlo: «L’Europa è un miracolo laico che oggi deve pensare in termini di utopia»

by Felice Sblendorio

Ci sono le radici e il futuro, l’orizzonte da percorrere e le culture politiche da rifondare nel “Rinascimento europeo” (il Saggiatore, 240 pagine, 22 euro) di Gianni Cuperlo, dirigente del Pd, già deputato dal 2006 al 2018. Cuperlo, in un saggio appassionato e personale che realizza un percorso intellettuale non scontato per raccontare che cos’è la sua Europa, guarda a questo progetto politico partendo da un dato condiviso: l’Europa come spazio politico di libertà e di diritti. Non semplicemente un luogo, dunque, ma un processo della storia, un miracolo laico nato, grazie alla politica, dopo il lutto della Seconda guerra mondiale.

bonculture ha intervistato Gianni Cuperlo.

Cuperlo, un libro sull’Europa nel momento più drammatico della nostra storia recente. Il sogno europeo, però, ci insegna qualcosa: nasce da una tragedia, da un lutto.

L’Europa dove siamo nati e vissuti non è figlia di un Arco di Trionfo ma della peggiore carneficina della nostra storia, non solo recente. Decine di milioni di morti dal 28 giugno del 1914 alla metà del ’45. L’Europa “leone affamato” alla conquista del mondo, la formula di Hegel, a quel punto era ridotta a una distesa di macerie morali e materiali, ma fu allora che la politica trovò l’ambizione e la forza per rovesciare le categorie storiche e morali che avevano spinto popoli e nazioni a odiarsi e combattersi per secoli. Un miracolo laico che élite illuminate seppero fondare sulle pagine più buie del nazismo, del fascismo, della Shoah.

L’attacco all’Ucraina ha messo in discussione la pratica della pace. L’obiettivo di Putin, secondo molti, sembra essere il sistema e l’impianto liberale. Ma quale deve essere la nostra difesa? E come riformuliamo, per salvare i pilastri, la nostra democrazia?

Se rileggiamo l’intervista di Putin al Financial Times nel giugno del 2019 quell’impianto emerge in tutta la sua aggressività. La tesi di fondo è nel fallimento delle classi dirigenti europee incapaci oramai di garantire una vera protezione ai loro cittadini. L’immagine è quella di un declino dell’idea liberale con un Occidente rammollito nei principi, da lì l’unica risposta possibile indicata in un ritorno alla tradizione, Dio patria famiglia. La nostra difesa di fronte a tutto questo deve muovere da chi siamo e come immaginiamo il futuro comune di questo continente. La Russia è un impero per dimensioni e tradizione, ciò che non è pensabile è immaginare il futuro della nostra sicurezza comune fuori da una relazione con quella nazione. Oggi difendiamo il diritto dell’Ucraina a difendersi in una reazione che ha già sancito il fallimento dei piani di Mosca, almeno sotto il profilo di una guerra lampo che non avrebbe incontrato resistenze. Così per fortuna non è avvenuto, ma adesso è il momento in cui spingere per una iniziativa della diplomazia, prima di tutto da parte dell’Europa, che conduca a una tregua, a silenziare le armi, e a una trattativa con al centro garanzie certe per il futuro dell’Ucraina, compreso il suo ingresso nell’Unione Europea, la tutela delle minoranze nazionali, una soluzione condivisa per le aree contese e la ripresa di un processo di disarmo delle testate nucleari tattiche. Noi abbiamo ereditato un’Europa a lungo pacificata, non abbiamo il diritto di lasciare in dote a chi verrà dopo di noi un continente di nuovo diviso e incapace di convivere.

L’Europa, anche in questo conflitto, non rappresenta una delle potenze determinanti del mondo. Come potrà emergere dalle strettoie del bipolarismo Stati Uniti-Cina?

L’Europa sinora non ha espresso una egemonia sul fronte politico e diplomatico e questo ha reso la posizione americana dominante, almeno sino alle parole pronunciate da Biden a Varsavia e al vertice dei ministri della Difesa che si è tenuto a Ramstein. Il nostro interesse – nostro di europei – è che questa guerra finisca il più rapidamente possibile e che la scelta sciagurata del Cremlino, l’invasione di uno stato sovrano con un governo legittimo e democraticamente eletto, venga respinta. Bisogna farlo, intendo che bisogna raggiungere quell’obiettivo, senza immaginare che la soluzione passi da una vittoria sul campo o dall’alto con i caccia militari a fare il loro “lavoro” perché quella sarebbe una catastrofe umanitaria, lascerebbe un panorama di devastazioni peggiore di quello che già si è consumato. Serve che la politica nello spirito indicato da Macron e dalle stesse espressioni del premier Draghi nella sua trasferta a Washington si faccia artefice di una proposta che consenta a Putin di uscire dall’angolo dove si trova adesso. Naturalmente è fondamentale che l’Ucraina e il suo governo siano convinti e partecipi di questo processo e si sentano pienamente garantiti nel suo esito. Lo so, è un sentiero stretto, ma insisto nel dire che una alternativa a una pace giusta semplicemente non c’è. Quanto a Stati Uniti e Cina penso e spero che possano contribuire in modo attivo ad imboccare questa strada. In questo senso la ripresa di un dialogo tra il segretario alla Difesa americano e il ministro della Difesa russo può essere un segnale nella direzione che serve.

In queste settimane, per citare Lenin, sono accaduti decenni e il concetto di fine della storia si è rivelato, ancora una volta, del tutto sbagliato. Questa guerra come riscrive e problematizza la storia del Novecento?

Mi ha colpito la sintesi di Lucio Caracciolo quando spiega perché nel 1991, all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica, abbiamo scambiato la fine della pace con la fine della guerra. Errore capitale da cui sono derivate conseguenze che si riversano, in parte, anche nella tragedia di ora. La verità è che la politica può ridisegnare i confini, favorire la nascita di Stati che prima non c’erano, e la parabola della ex Iugoslavia e dell’Urss lo dimostrano, ma ciò che non può mai fare, invece, è cancellare identità, lingue, appartenenze nazionali e religiose, tradizioni, e soprattutto la storia col suo portato di lutti, sofferenze, conflitti. Sono nato in terra di confine e credo di avere compreso lì il peso di vicende che solo una colpevole superficialità può ritenere risolte. Non credo che la guerra che si consuma sotto i nostri occhi possa riscrivere la storia del ‘900, secolo grandioso e tragico, ma certamente avrà la forza per restituire la giusta complessità a questioni che in troppi giudicavano relegate negli archivi. L’irrompere di spinte nazionalistiche ben presenti anche prima del 24 febbraio sono la testimonianza di questo e la sinistra deve attrezzare un pensiero e politiche all’altezza della sfida. In Europa e anche in casa nostra.

Lei pensa a un Rinascimento europeo: ma su quale identità – culturale, politica o geografica – bisognerebbe ancorare questo nuovo tempo?

A me è sempre piaciuta la suggestione che indica i confini dell’Europa nei confini ai valori della sua civiltà. Siamo la culla del primo vero Rinascimento, e prima ancora dell’Umanesimo, e poi dell’Illuminismo. Quella triade su libertà, uguaglianza, fraternità è la nostra identità e si accompagna al desiderio di giustizia sociale, lotta alle disuguaglianze più indecenti che questo tempo storico non solo non ha sanato, ma continua a produrre. Il problema di ora è che questi valori per la prima volta dopo decenni paiono restringersi anche all’interno del perimetro dell’Europa politica, ma appunto per questo la nostra battaglia deve combinare gli aspetti materiali di quel contrasto alle disparità nei diritti e nelle libertà dei singoli con una battaglia ideale e culturale sui valori della civiltà dove abbiamo avuto la fortuna di nascere.

Il Covid-19, elemento centrale nella sua riflessione, sarà realmente un punto di svolta nella lotta alle disuguaglianze? E come bisognerebbe rivoluzionare, alla luce di una nuova cultura del pubblico, l’economia europea?

Il Covid, come tutti i “cigni neri”, ha avuto la capacità di accelerare processi che senza quel dramma avrebbero impiegato molto più tempo a imporsi. Pensiamo alle resistenze della Germania e dei paesi nordici a qualunque ipotesi di mutualizzazione dei debiti sovrani o alle risposte offerte dall’Europa alla grande recessione del 2009-2012 col rinnovo di vincoli tecnicamente assurdi sui bilanci pubblici e il rifiuto di una politica monetaria espansiva. Poi arriva la pandemia e in un pugno di settimane accade che vent’anni di parametri lasciano campo a soluzioni attese e sempre negate: si sospendono il patto di stabilità e le norme sugli aiuti di Stato, si vara il Next Generation EU e, soprattutto, muta la coscienza diffusa dell’importanza di politiche pubbliche efficienti e dotate di risorse adeguate in primo luogo sul fronte sanitario e dell’assistenza. Il punto è che quando il mondo attorno cambia è la forza d’urto degli eventi a costringere la politica a cambiare.

Scrive che la politica, e la sinistra in particolar modo, deve pensare la realtà come non è. La politica come può non subire più gli eventi della storia, sfuggire dal presentismo e governare forze che, oramai, consideriamo ingovernabili?

In vari modi, se dovessi indicarne uno soltanto direi senza rinunciare mai alla complessità del mondo, compresi i conflitti e le contraddizioni che ci mette davanti. Uscire dal ricatto dell’istante e riscoprire la forza di un pensiero politico non schiacciato sulla battuta di serata o sul titolo del giorno dopo. Se penso alla sinistra temo che abbiamo consegnato alla comunicazione una funzione che è propria della politica: il risultato è che abbiamo chiuso molti uffici studi e aperto troppi uffici stampa. Non ne è venuto propriamente del bene. Allora, riavvolgere qualche metro di nastro per affrontare le domande giuste potrebbe rivelarsi una sorpresa, ma di quelle positive.

Da quali parole deve ripartire la sinistra per uscire dal suo scontento?

Pace, dignità, libertà, diritti umani.

Proprio sui diritti umani e sulle migrazioni l’Europa ha spesso perso la sua anima. Scrive che la politica deve «aprire gli occhi e farli aprire». Come si cambia paradigma, non cadendo nella trappola di trasformare una questione umanitaria in un’emergenza democratica e sociale?

Rimettendo al centro le persone, il loro diritto a vivere e ad affrancarsi da una condizione di sfruttamento, violenza, fame. Il Mediterraneo è da anni la tomba di decine di migliaia di esseri umani e la cosa più difficile da sopportare è la propaganda che dice “non scappano da alcuna guerra; quindi, è giusto rimandarli da dove sono venuti”. Ma se una madre di vent’anni sale su uno di quei maledetti barconi sapendo che rischia la vita e la fa rischiare alla creatura che porta tra le braccia chiunque sia dotato di un briciolo di umanità capisce che per lei e altre migliaia come lei quello non è il viaggio della disperazione, ma è il solo viaggio possibile della speranza per non morire di stenti, stupri, violenze che ha subito sino a quel momento. Intendo questo per aprire gli occhi, riscoprire il significato di una solidarietà, accoglienza, spirito di cooperazione che ci faccia leggere quelle vite come se fossero le nostre.

Il filo rosso della sua Europa è la speranza in una felicità pubblica: ma non è un’utopia?

Diceva Bruno de Finetti, grande intellettuale e matematico, “Bisogna pensare in termini di utopia perché pensare di risolvere efficacemente i problemi in altro modo è una ridicola utopia”. Difficile dire meglio.

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