Il sangue mai lavato di Francesco Marcone

by Felice Sblendorio

Ci sono fantasmi che non avranno mai pace. Uno di questi è Francesco Marcone, il direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia ucciso esattamente venticinque anni fa, il 31 marzo del 1995. Chiunque abbia anche soltanto sfiorato le carte e i dettagli di uno dei casi più dolorosi e decisivi della storia criminale foggiana avrà sicuramente sentito una forza centripeta portare tutto in un solo punto: una sorta di abisso, un grande buco nero colmo di indizi, sospetti, lacune, deliri.

Non tutto è come sembra, soprattutto in un caso come questo. Purtroppo, i venticinque anni di narrazione culturale affidata a voci contrastanti e inconciliabili hanno prodotto come unico risultato l’edulcorare e, dunque, neutralizzare la figura di Marcone: poteva bastare ricordarlo come un uomo onesto, era già una concessione. Tolto dal suo contesto (gli anni ’90 a Foggia) e dal suo lavoro (le denunce sulle imposte di affari decisivi in quel momento storico per l’imprenditoria), viene eroso di anno in anno un pezzo della sua dignità. Se nero su bianco non c’è una verità giudiziaria, la memoria deve farsi carico di collegare i tasselli, i moventi, gli scenari.

bonculture, a venticinque anni da quell’omicidio che ha fatto da spartiacque nel progressivo salto di qualità della criminalità organizzata foggiana, ha intervistato Daniela Marcone, figlia di Francesco, da sempre impegnata in un percorso di verità e giustizia per la morte di suo padre, e oggi vicepresidente di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.

Venticinque anni possono essere un tempo lunghissimo o breve. Thomas Mann ne “La montagna incantata” scriveva: “Lunghi periodi di tempo si restringono in modo da far paura; se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo”. Che tempo è stato dalla morte di suo padre?

È sempre difficile, in generale, definire il tempo. Dopo venticinque anni, pesano moltissimo le sconfitte e le lacune giudiziarie. La ricerca di verità e giustizia per la morte di mio padre non è stata mossa da un desiderio di vendetta, ma mi ha aiutato a ricostruire il tempo vissuto con lui. Quando è morto la nostra famiglia è rimasta sola: per otto lunghi mesi non siamo stati ascoltati da nessuno. Quel tempo, che ha determinato ferite importanti, è stato lunghissimo e difficile da vivere. Mi ha salvata in quel momento l’amore e l’affetto che provavo per lui. Non è stato un padre facile: mi richiamava all’ordine, pretendeva che fossi una cittadina responsabile, sempre presente e disponibile per l’altro. Quando è andato via sono stata quasi costretta, seguendo i suoi insegnamenti, a percorrere il cammino della verità. Un mese dopo la sua morte, poi, ho incontrato due insegnanti del Pascal con cui abbiamo costituito un microbico comitato cittadino: mi fecero capire che la morte di mio padre riguardava anche loro, perché riguardava tutta la città. La cosa che le aveva sconvolte era il silenzio che si era creato attorno a questa storia. Si erano mosse dopo la lettera di mia zia, la scrittrice Maria Marcone, che denunciava l’omertà e il silenzio di Foggia e testimoniava l’isolamento della nostra famiglia. Alla tragedia di mio padre si unì subito dopo quella di mia madre: quando si rese conto che molte persone che avrebbero dovuto starci accanto ci avevano voltato le spalle, si sentì tradita. Cominciò un periodo molto complesso e difficile perché non mangiava più e in un solo anno diventò l’ombra di sé stessa.

Quella contro il tempo è stata la battaglia più complessa?

Usare la parola battaglia prima di questa storia era semplice, mentre ora tutte le parole che ricordano un combattimento mi fanno paura. Il mio peggior nemico è stato il tempo. Dalla morte di mio padre ho vissuto otto mesi di silenzio lunghissimi. Non ci voleva ascoltare nessuno, così la mia famiglia ha sempre combattuto affinché quel tempo si accorciasse, ma non andò così. Oggi ci sono domande che mi distruggono. Perché dovettero passare otto mesi prima di ascoltare i familiari della vittima? Perché dovetti andare al Tribunale con i cartelli per essere ascoltata? Perché all’epoca non sono mai stata ricevuta dal Prefetto, dal Questore, dal Procuratore? Perché non si è mossa una macchina importante per l’omicidio di un uomo dello Stato? Oggi le famiglie delle vittime innocenti sono le prime a essere ascoltate, ma all’epoca non fu così. Quel distacco, all’esterno, rappresentò molto per la città perché da una parte c’era lo Stato e dall’altra noi, da soli.

Cosa non è stato più come prima dopo quel giorno?

I sogni che avevo prima si sono spezzati e da quel 31 marzo del 1995 non ho più sognato. Non ho più realizzato tanti miei progetti perché non potevo girare la testa rispetto a quello che era successo: dovevo prendermi cura di mio padre. Io l’ho visto riverso sulle scale e per l’orrore quasi non l’ho riconosciuto. Non poteva essere lui: vederlo senza vita ha rotto per sempre qualcosa dentro di me. Mio padre mi ha insegnato la profondità del rapporto con l’altro, ma nei primi anni vedevo nemici dappertutto: credevo che chiunque potesse essere l’assassino di mio padre e chiunque potesse farci del male. In molti mi hanno consigliato di continuare la mia vita, addirittura qualcuno mi ha detto che non l’avrei fatto riposare in pace continuando a ricercare la verità. L’ambiguità di quelle persone fu dolorosa.

Molto spesso si dice che le madri siano immortali. In casi come questi, però, i padri resistono al tempo e si trasformano in un continuo confronto: l’unico uomo possibile, l’unico uomo da amare. È stato così anche per lei?

Ritorno sempre a lui. Nei primi dieci anni dopo la sua morte mi sono occupata della giustizia, ma dopo l’ultima archiviazione del 2004 mi sono chiesta chi fossi io. Sono entrata in una crisi durata diversi anni perché era evidente che la mia vita aveva subito dei colpi molto duri, dalla morte di mio padre alla malattia gravissima di mia madre, passando per la separazione da mio marito. Ricordo che arrivò una lettera anonima diversa dalle solite, perché era personale. Qualcuno si era preso la briga di scrivermi che ero un fallimento perché avevo seguito quell’ideale di giustizia ed ero rimasta sola. Immediatamente la stracciai. Mi fece male, ma mi convinsi che quello che avevo fatto era giusto: aveva dato fastidio. Mi avevano colpito nell’intimo perché mi sentivo una donna senza patria: non ho saputo per troppo tempo se fossi una cittadina o la figlia di un uomo ammazzato. Non è stato semplice vivere con questa storia, soprattutto quando sono stata obbligata a seguire questo percorso. Molte persone si sono allontanate da me perché avevano ucciso mio padre. Il mondo che conoscevo, dopo quel 31 marzo, andò in mille pezzi. Dal 2005 ho cercato di capire cosa volessi essere, prendendo in mano la mia vita. Non è stato facile, ho quasi rischiato una depressione, ma poi l’incontro con alcune persone speciali e con Libera mi ha salvata.

La figura di Francesco Marcone è sempre legata alla sua professione, al legame con lo Stato che ha servito fino alla morte. Che cosa faceva nel privato: leggeva, ascoltava musica?

Era un giocatore di scacchi. Quando era con noi si rifugiava nella sua stanza per ascoltare musica. Amava la musica classica, soprattutto quella lirica e la sua passione erano i Tre Tenori. Non nascondo che alcune volte ci sorprendeva. Nel ’79 portò a casa “The Wall”, il famoso disco dei Pink Floyd. Era un padre sensibile e premuroso. Quando mi vedeva un po’ giù lui c’era. Mi faceva sfogare e non sempre era facile raccontare una delusione d’amore o un tradimento fra amiche. Era severo, premuroso, ma non mi deludeva mai. Amava leggere, poi: i grandi classici e Pirandello in particolare. Ricordo una cosa in maniera forte: eravamo una famiglia semplice, monoreddito, ma comprare i libri non era mai un problema. Papà poteva discutere su una camicetta nuova, ma sui libri mai.

Non vorrei essere duro, aprendo un tema difficile e doloroso che riguarda l’importanza della figura di suo padre per una città come Foggia. Lo chiedo direttamente a lei, allora: chi è suo padre per una città che, molto spesso, ha dimenticato quella tragedia?

Per un pezzo della città rappresenta un esempio. L’omicidio di mio padre, come tutto quello che è successo negli anni ’90, oggi si fa fatica a ricordarlo. Nel 2017, subito dopo la strage di San Marco in Lamis, ho sentito la necessità di distaccarmi dal mio essere figlia per proporre a tutti una lettura oggettiva di tutto quello che è successo. La storia della criminalità foggiana non la si può far partire dal 2017. C’è tutta una serie di delitti, omicidi, fatti drammatici che riguardano la città che sono dentro un racconto determinante per la nostra comunità. Non si sanno ancora molte cose, ma si poteva intuire già dagli anni ’90 dove avrebbe portato quel percorso.

L’altra parte, invece, forse ha gioito a seguito delle tre archiviazioni. Il giornalista Giovanni Dello Iacovo, che ha seguito per anni il caso, ha scritto: “Le archiviazioni hanno congelato e paralizzato ogni dibattito o discussione pubblica intorno a un delitto che, pure, chiamava in causa condotte oblique e corrive di pubblici funzionari, professionisti e imprenditori”.

La maggior parte dei miei concittadini non conosce il contenuto di quelle tre archiviazioni. Si tratta di richieste di archiviazioni in cui la Procura di Foggia diceva che non era riuscita a individuare in maniera precisa prove forti da reggere in un processo. Le parole dell’ultima archiviazione del 2004 hanno cambiato il mio dna. Il Gip Lucia Navazio si prese una grande responsabilità perché ci ascoltò e accolse le nostre richieste. Dopo la seconda archiviazione noi abbiamo chiesto la riapertura del caso portando valutazioni sulla lettura degli atti. Leggendo le carte notammo che una persona ospitata nella casa circondariale di Foggia aveva richiesto di fornire degli elementi sull’omicidio Marcone. Una volta dati questi elementi, quando capì che avrebbe dovuto tenere dei confronti con i boss della criminalità, tutto si fermò. Così, leggiamo e richiediamo tutto quello che negli anni avevamo già chiesto: i tabulati telefonici in entrata e in uscita dall’ufficio di mio padre, la nomina di un consulente d’ufficio esterno per leggere tutte le carte, etc. Nel corso dell’udienza, la Navazio decise di accogliere la nostra opposizione. Quel frangente è importante perché lei chiese ben 50 punti di nuove indagini, di cui 20 erano legati alle nostre richieste storiche. Quelle indagini individuarono la persona che deteneva la pistola con cui venne ucciso mio padre. Purtroppo, però, questa persona morì in uno strano incidente stradale a Mattinata.

Un testimone decisivo.

Tutto venne archiviato per decesso dell’indagato, ma lui era un indagato chiave. Forse non era stato lui, ma rimaneva il proprietario dell’arma: a chi l’aveva data? Chi aveva ordinato di fare quell’aggressione o quell’omicidio? Noi questo non lo sappiamo. La Navazio fece l’indagine a tutto tondo con una serie di analisi approfondite dal G.I.C.O. (Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata) della Guardia di Finanza sul lavoro di mio padre. Chiedemmo che il suo lavoro venisse vivisezionato e che le sue ultime denunce venissero comprese. Tutto questo fu fatto, ma forse era già troppo tardi.

Nel 1998, a distanza di tre anni dal delitto, l’Onorevole Elio Veltri alla Camera dei Deputati denunciò: “È opinione comune a Foggia che l’assassinio nasce nell’ambiente di lavoro, e che la magistratura da una parte, non si sa se per inesperienza o per altro, e il Ministero delle Finanze dall’altra, non abbiano fatto quanto era necessario per conoscere la verità”. A distanza di venticinque anni è un giudizio duro o realistico?

È difficile dare una valutazione. Io parto sempre dai fatti e i fatti parlano chiaro: in 8 mesi, familiari e colleghi non sono stati ascoltati. In quel tempo può essere accaduto di tutto. Anche il tema dei tabulati telefonici è interessante. Questa tecnica investigativa, comprese le intercettazioni, venne effettuata solo tempo dopo per alcune persone indagate e coinvolte. Vennero ritenute inutili, mentre per noi erano prioritarie. Poi, ancora: perché non intervenne un consulente esterno? Perché le segnalazioni di mio padre sono state verificate da qualcuno di interno che, negli anni, fu anche indagato per quell’omicidio? Perché il G.I.C.O. intervenne così tardi? Questi interrogativi pesano sulla storia giudiziaria di questo caso. I fatti parlano da soli. Le indagini furono fatte, ma rileggendo tutto sembra manchi sempre l’anello di congiunzione fra una cosa e l’altra: quello che unisce e fa comprendere. L’archiviazione del 2004, nonostante il decesso dell’indagato, scrive una pagina importante per la città perché si dice che la parte sana, o quella che avrebbe dovuto essere tale, non ha collaborato.

Quante persone portano sulle spalle il peso morale di quell’omicidio?

Tantissime. Molti hanno taciuto e hanno continuato a fare la loro vita, augurandosi che cadesse la luce dell’indifferenza su questo caso. Anche a livello istituzionale ci furono gravi lacune, cose poco chiare anche sull’assenza dell’indagine interna richiesta al Ministero delle Finanze. All’epoca ci fu una richiesta su questa indagine interna anche da alcuni parlamentari: da destra a sinistra, da Simeone a Vendola. Si chiedeva ai Ministri delle Finanze e della Giustizia l’esito di quelle indagini. Come mai muore una persona dello Stato per motivi collegati al suo lavoro e il suo ufficio non viene setacciato da capo a fondo? Fu strano, ma se ci penso oggi mi chiedo: a quel tempo, quale altro ufficio dello Stato apriva autonomamente, quindi senza la richiesta di un potere esterno come la magistratura, un’indagine sui comportamenti dei propri funzionari? Quasi nessuno. Non dimentichiamoci, inoltre, che figure apicali di quelle sezioni furono indagate per l’omicidio di mio padre. Anche tutti i Ministri che incontrai capirono la difficoltà.

Nel tempo, gli inevitabili processi della memoria hanno trasformato quella di suo padre in una figura quasi innocua: ci si limita a descriverlo come una persona onesta, trascurando lo scenario e lo stato sociale ed economico che fece da sfondo a quel delitto. Perché è stato ucciso?

Mi pesa moltissimo leggere che è stato ucciso da ignoti e per un movente sconosciuto. Ma davvero possiamo dire che il movente è sconosciuto? Mio padre è morto per il suo lavoro: dal 1992 al 1995 si è occupato della città di Foggia, di tassare atti importanti, delle compravendite immobiliari, quindi terreni su cui edificare, alle costituzioni di società che avevano il fine dell’edilizia e dell’imprenditoria. Gli atti che dovevano passare sotto la sua visione erano degli atti scorretti. Lui leggeva tutto come un tecnico perché era un funzionario del Ministero, non un magistrato. Se era sbagliato rimandava il calcolo delle imposte al reparto, con la certezza che la persona che aveva prodotto il calcolo doveva essere spostata perché ricorreva frequentemente in quel tipo di errori. Il G.I.C.O. lo dirà molto bene: ci sono degli spostamenti di personale effettuati da mio padre che erano utili a neutralizzare dei movimenti opachi. Anche le sue denunce furono un gesto di responsabilità che, a distanza di tempo, dovremmo chiederci perché rimasero un gesto solitario e isolato.

È stato ucciso per qualcosa che aveva già fatto o che avrebbe potuto fare?

Sono convinta che sia stato ucciso per qualcosa che stava per fare. Non è stata una vendetta, come nel caso di Panunzio. Io credo che lui sia stato ucciso perché non doveva continuare quella sua attività di denuncia: stava dando fastidio e poteva compromettere un giro di affari poco chiaro.

Oggi lo scenario criminale in Capitanata sembra esploso. Il marcio è una piccola o una grande parte della nostra comunità?

C’è un pezzo marcio, ma non sono convinta che sia così preponderante: la parte più ampia è quella indifferente.

Non è facile essere d’accordo con questa sua visione, soprattutto se consideriamo la potenza che dagli anni ’90 ha conquistato l’illegalità e le varie economie, politiche e professioni ormai infiltrate.

Credo ci sia una sterminata parte di indifferenti. L’indifferente, alla fine, è sempre un colpevole. Sulla nostra indifferenza si basa il dominio assoluto della mafia. Credo che in questi ultimi anni una grande fetta di persone culturalmente dotate ed economicamente forti stiano capendo che bisogna fare di più, che dovrebbero fare una scelta di campo chiara. Mentre prima c’era il silenzio, ora molti imprenditori si stanno facendo avanti per paura e per il rischio che questa città crolli definitivamente sotto l’assedio del dominio mafioso. In questo quadro si è innestata anche una carenza di letture precise da parte dello Stato che sta cominciando a fare un lavoro rivoluzionario solo da qualche tempo.

In uno scenario simile la memoria diventa un elemento prezioso.

La memoria serve a colmare le lacune che la storia ci consegna. Serve poi per riscrivere, contestualizzare, e per non dissipare il sacrificio di tutte quelle persone che sono morte sotto i colpi della criminalità e dell’oblio.

Attualmente è vicepresidente di Libera, l’associazione di Don Luigi Ciotti. In questi anni c’è stata una componente spirituale, o religiosa, che l’ha aiutata a sopravvivere al dolore?

Grazie a Libera, e alle tante persone incontrate in questi anni, ho riacquistato fiducia nell’uomo, nell’umanità. Io sono riuscita a elaborare quel dolore fino a un certo punto. Quando parlo di mio padre sono costretta a compiere un’azione di astrazione, altrimenti alla fine ci resto male per ore. La mia elaborazione del lutto è maturata grazie a una spiritualità, ma non so definire quanto cattolica sia.

Nella sua vita c’è un solo bambino, il figlio di suo fratello Paolo che porta il nome e il cognome di suo padre. Sarà mai libero dalla tragedia che quel nome porta con sé?

Quel nome ricorda nostro padre. Mio fratello e mia cognata mi hanno coinvolto in quella decisione e io sono la madrina di quel bambino. Oggi ha 12 anni, e speriamo un giorno racconti questa storia, ma senza pesi. L’abbiamo protetto al massimo perché non diventi il figlio di una storia di diversità. Io e mio fratello abbiamo compreso a nostre spese che tutto quello che hai progettato in un solo minuto si può spezzare per sempre, quindi vogliamo lasciare questo ragazzo libero. Crediamo che ricordare una persona cara, spinta in maniera così violenta alla morte, con il dono della vita, sia uno dei modi più belli per tenerla ancora accanto a noi.

Lei non è mai andata via da Foggia. Si dice che il tempo della vecchiaia sia quello dei sogni e dei desideri da realizzare: vorrebbe invecchiare qui?

Non saprei. Ho pensato molto spesso di andare via da Foggia, ma poi sono restata perché qui è come se ci fosse qualcosa di incompiuto. Andandomene avrei spezzato per sempre un legame. Credo serva ancora restare qui per ricostruire quello che ci è successo: il passato raccontato bene, forse, può riscattare il nostro presente e proteggere il futuro.

Venticinque anni dopo, che donna è diventata?

Mi sento una donna che ha perso tantissimo. Mi ha migliorato solo l’incontro con gli altri, ma alla fine sento di aver perso tanto. Forse tutto.

A casa conserva gli occhiali di suo padre ancora sporchi di sangue. Perché ha deciso di non lavarli?

Per conservare il suo ultimo sguardo sul mondo: ancora oggi, a distanza di venticinque anni, credo che quel sangue serva ancora. Fin quando non sapremo la verità sulla sua morte, quel sangue sarà lì. A testimonianza.

Daniela Marcone

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