La rinascita e il sogno del Rione Sanità. Don Antonio Loffredo: «Ogni Umanesimo se non serve all’uomo è un fallimento in partenza»

by Felice Sblendorio

Don Antonio Loffredo ha seguito le orme del Marco Polo di Italo Calvino: «saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Dal 2001, nel suo Rione Sanità, ha cercato di strutturare e far durare il bene in modo organizzato, propositivo, generativo. Figlio di un imprenditore, Loffredo è un prete visionario, un manager culturale, un «controcorrente e indisciplinato» come scrisse di lui Ermanno Rea. In vent’anni, grazie al suo impegno, in uno dei quartieri più problematici di Napoli sono nate occasioni di riscatto e salvezza: le Catacombe di San Gennaro, passate dalle tenebre alla luce, hanno rigenerato il Rione e generato economie virtuose. Se nel 2006 si registravano 5.000 ingressi, nel 2018 ben 130.000, 5.000.000 di incassi e 34 giovani a cui è stata garantita formazione e occupazione. Un miracolo del fare che, nel tempo, ha fatto nascere un’orchestra per bambini e ragazzi, un laboratorio creativo, uno teatrale, uno studio di registrazione, una casa editrice, una palestra di boxe, un’officina dei talenti, due bed&breakfast e oltre 50 posti di lavoro fra guide turistiche, formatori, tecnici, manutentori, professionisti. Questa sera, a partire dalle 19.00 al LUC di Manfredonia, Don Antonio racconterà questa storia con Giuliano Volpe, Saverio Russo e Gaetano Prencipe nel dialogo organizzato “POP – Officine Popolari” e intitolato “Madre Cultura. Patrimonio e politiche culturali: una leva di sviluppo”. bonculture ha intervistato Don Antonio Loffredo.

Settembre 2001, Don Antonio Loffredo arriva al Rione Sanità. Ricorda il suo primo impatto?

Mi sentii un estraneo. Avevo capito che gli altri mi dovevano osservare, pesare, comprendere. Mi sono messo lì e mi sono fatto guardare, senza paura. Non è stato difficile sintonizzarmi con il loro essere perché sono nato vicino alla Sanità. Ho cominciato ad ascoltarli, che è la prima cosa da fare come dice Gesù nel Vangelo.

Ci sono molti modi per fare il prete, qual è stato il suo?

Molto simile all’idea di Giovanni XXIII: una Chiesa come l’antica fontana del villaggio. Come prete ho messo a disposizione le risorse che avevamo, a partire da tutti gli spazi vuoti. Il parroco di una comunità deve essere pronto a dare un sorso a tutti, senza distinzioni. Questo è stato il mio compito: sono diventato prete per far felici le persone che incontro.

Dopo vent’anni chi o cosa è più cambiato: lei o il Rione?

Entrambi. Io ho imparato a essere più umano. C’è una deformazione notevole quando si diventa preti. Bisogna fare attenzione e mantenere la barra dritta sul senso dell’umanità, perché ce la fanno proprio perdere. Ci insegnano certe stronzate come quella che siamo diversi da voi, ontologicamente. Personalmente sono stato me stesso in questa chiamata che un giorno il Signore mi ha fatto. Ho avuto difficoltà a comprendere che aveva chiamato proprio me, ma poi ho dato la mia totale disponibilità.

Questi anni hanno generato una fioritura imponente di energie. È stata la vostra risposta alla disperazione?

Abbiamo chiarito un cammino da fare mettendo un treno deragliato sul binario giusto. Ci è sembrato importante soffiare sulla cenere che si era sedimentata su questi beni e sul capitale umano del Rione. Abbiamo valorizzato un capitale reputazionale: alla Sanità era difficile anche entrarci, mentre oggi è un posto visitato da tantissimi turisti, un Rione cool. Abbiamo valorizzato un grande capitale identitario perché i beni storici e artistici, come ci indica la Convenzione di Faro, possono dare strutturazione a una comunità. Abbiamo poi recuperato un capitale sociale: i doposcuola, i libri, la cultura, i talenti. Queste operazioni hanno inciso sulla comunità.

Il suo predecessore, Don Giuseppe Rassello, disse che il Rione «è uno di quei posti in cui l’Umanesimo o diventa umanità o muore». Da voi l’Umanesimo è risorto?

Per noi questa frase è un mantra. I nostri beni non sono reperti da adorare: al Rione abbiamo portato alla luce le Catacombe di San Gennaro, le abbiamo fatte vivere con il territorio e gestire dai figli di quelle strade. Il patrimonio culturale è un prodotto dell’uomo e deve servire all’uomo. Ogni Umanesimo se non serve all’uomo è un fallimento in partenza. Il nostro nuovo Umanesimo ha un sapore dolce, umano, fragile.

Un Umanesimo che entra nella pelle.

Proprio così. Molti archeologi dicono che non tutti possono comprendere l’arte, ma non è vero. Le persone semplici hanno bisogno di bellezza e di un linguaggio folgorante che passi più per l’emozione che per la testa. Bisogna folgorare la gente, commuovere più che convincere. L’arte, per noi, ha questa strumentalità: deve smuovere l’uomo.

La vostra è una storia di salvezza. Quanto è difficile, in certi contesti, evitare una sorta di predestinazione cieca che incombe sul futuro?

Non è tanto difficile convincere le persone a mettersi in cammino o far innamorare un giovane ad un progetto di vita, ma è complesso far capire a chi ha delle responsabilità, ovvero la burocrazia ecclesiale e civile, il proprio ruolo di servizio. A volte hanno la capacità di ostacolare i sogni più belli, ma non bisogna desistere. Vorrebbero fermare la storia, ma è come fermare un fiume. Dico ai miei ragazzi: o cambieranno o arriverà la morte, andranno in Paradiso, le sedie saranno occupate da gente diversa e, forse, saremo in grado di realizzare i nostri sogni con più facilità.

Avete cambiato un paradigma: non più favori o pietà, ma diritti.

Abbiamo educato una coscienza del diritto. Abbiamo dato strumenti per far capire che non sono oggetti nelle mani degli altri, ma attori e costruttori di un futuro comunitario e personale. Abbiamo dato loro l’istruzione e la parola, lo strumento che, da sempre, rende l’uomo più libero. La mancanza di libertà, di speranza e di dignità è dovuta alla mancanza di parole: più parole conosce un uomo è più è vicino al suo Creatore.

Dostoevskij ha descritto un mondo salvato dalla bellezza. Andiamo oltre la possibilità: non se, ma quale bellezza potrà salvare, o raddrizzare, questo mondo?

La bellezza che è buona. Bellezza e bontà non si eludono, ma vanno insieme. La bellezza, poi, è quella depositata nel cuore di ogni persona; è un atteggiamento del cuore. La bellezza cambia il mondo se avvolge la gente.

Per Bauman l’ideale della bellezza era una guida per un mondo che si trova al di là dell’esistente. È un’utopia irraggiungibile?  

L’utopia è una molla, una tensione, un motore, ma non riusciremo mai a raggiungerla. La mia utopia è avere un mondo come la Gerusalemme del cielo. Per quanto mi batterò tutta la vita, ovviamente non avrò la forza di realizzarla. L’utopia è sempre oltre la storia, ma l’obiettivo è saper disegnare su questa terra parole di cielo. Non è importante che si realizzi nella storia l’utopia del cuore, ma è necessario fare più passi possibili affinché ci si avvicini a quel sogno. Il tentativo ci rende più liberi. 

Le vostre attività, fino al 2018, hanno generato 33 milioni di euro. Al Sud, senza miracoli e sconfiggendo quell’idea assistenzialistica molto diffusa, si possono generare economie pulite?

Non si possono, ma si devono generare. Mai come al Sud bisogna tirar fuori la nostra capacità di ripensare un’economia circolare, di comunità. Nel 1700 qui avevamo una Cattedra di economia, quella di Antonio Genovesi, che era una un’economia della felicità. L’uomo deve essere al centro perché noi non siamo figli di Hobbes: l’homo homini lupus non ci appartiene. Nel Rione, anche se sappiamo che è impossibile sconfiggere il capitalismo, c’è un’economia dolce, che ha il sapore di umanità.

Un’economia dolce toglie ossigeno al potere criminale. Lei, però, non ha mai apprezzato l’etichetta di prete antimafia, anticamorra. Perché? 

Ho fatto il prete non per fare l’anti-qualcuno, sennò avrei fatto un cammino diverso. Come prete devo fare qualcosa per qualcuno, non contro. Io penso per chi faccio le cose. Se queste cose poi vanno contro un sistema, io ritengo che sia un effetto collaterale. Se faccio suonare i bambini è per allargare il loro cuore, non per sottrarre potere alla camorra. È un discorso che mi dà fastidio solo immaginare perché significa che nella vita c’è un contro, non un per. Gli anti-qualcosa vanno bene per i giornali, ma nella vita bisogna essere pro qualcuno.

Come si combatte, allora, il male?

Non frontalmente. Il nostro lavoro è sfiancarli, togliendo da sotto energie e persone. Ma non bisogna dirlo: una volta che hai svelato i piani di assalto è finita. Una buona tattica di guerra non svela mai i suoi segreti.

Don Peppe Diana scriveva: «Non ci interessa sapere chi è Dio, ci interessa sapere da che parte sta». In un territorio così difficile come il suo, Dio da che parte sta?

Da quella che ha scelto il primo giorno in cui si è fatto uomo: dalla parte dei più fragili. In questa terra, i luoghi sacri devono stare dalla loro parte. Saremo giudicati, se l’abbiamo servito o meno, per quello che abbiamo fatto per i poveri.

Tutte le esperienze personali e collettive iniziano e continuano con altri uomini, idee, visioni. Riesce a immaginarsi lontano dal Rione?

Non ora, ma da sempre. Io inizio un cammino pensando già a quando non ci sarò più, quando andrò via. I ragazzi da anni sono autonomi, quindi il mio lavoro è finito. Sono già in ritardo, da tempo sarei dovuto andare altrove per ritrovare un po’ di silenzio. Devo andare via, perché se resto qui faccio un danno a ciò che ho costruito. Voglio vedere se quello che ho fatto riuscirà a camminare sulle sue gambe. 

La sua gente è pronta a camminare senza di lei?

Sì, il mondo non cade senza di me. Il giorno in cui andrò via l’albero verrà scosso. Se qualche foglia cadrà, significa che è marcia. Tutte quelle che resisteranno avranno la forza di continuare senza di me.

Cadranno molte foglie?

È probabile: quelle più deboli, quelle non strutturate bene. Ciò che resisterà nel tempo sarà ancorato nel cuore delle persone, a prescindere da tutto. Sono ottimista, però: l’albero, in futuro, non sarà mai spoglio.

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