La scuola senza. Educhiamo per sottrazione

by Elisabetta de Palma

Come faremo?”: un’estate passata a chiedercelo, leggendo rapporti, linee guida, interviste, ascoltando opinioni e interpretazioni, spiando i siti delle altre scuole, frignando un po’ fra colleghi o litigando in riunioni fiume on line.

L’estate 2020, quella che ha preparato la ripresa delle lezioni in presenza, è andata tutta così, scandita dal countdown che con quotidiana solerzia l’informazione comunicava: mancano tre settimane, 20 giorni, 15 lavorativi, e così via. E più se ne discuteva, più le speranze si dileguavano. Il dibattito si è svolto tutto solo su uno stesso piano. L’apertura in sicurezza. La garanzia della ripresa. Il reperimento degli spazi. La corrispondenza alle richieste e alle attese. L’applicazione dei protocolli, la corresponsabilità, i regolamenti, il tempo scuola, le aule e – rullo di tamburi – I BANCHI monoposto. Sullo sfondo, per i soli addetti ai lavori, la questione del concorso, delle assunzioni a tempo per gli insegnanti, delle relazioni sindacali. Un circo mediatico a tratti interessante, ma per lo più noioso, sempre uguale. E molto avvilente.

Perché è stato chiaro che cosa si volesse veramente, da questa scuola tanto anelata e, all’occorrenza, brandita come una clava: uno spazio in cui collocare una parte della popolazione, quasi tutta minorenne, nel tempo necessario perché gli adulti che ne hanno la responsabilità genitoriale tornino alla vita attiva e produttiva. Lo ha reso evidente il modello liturgico che impronta la narrazione sulla scuola che verrà, opposto al modello aziendalista iperattivo degli ultimi vent’anni. Avete presente un’assemblea durante la messa? Ecco, l’idea è quella. Astanti compostamente seduti a distanza, che ascoltano un unico soggetto autorizzato a parlare, talvolta rispondono, non si guardano fra loro e non si parlano. Entrano ed escono in religioso, manco a dirlo, silenzio e non si muovono dal proprio posto fino alla benedizione finale. Che avrà la forma di una campanella cadenzata, fila dopo fila, corridoio dopo corridoio, fino a che i piccoli devoti non saranno tutti riconsegnati a chi, avendo voluto la bicicletta, dovrà riprendere a pedalare.

E siccome dopo i 14 anni, suvvia, possono anche rimanere a casa da soli, a noi delle scuole superiori è riservata subito la Didattica Digitale Integrata, che si può adottare se i ragazzi sono troppi per le aule che la scuola ha a disposizione. Una parte, a turno, segue da casa in videoconferenza (qui al modello liturgico è affiancata l’avanguardia didattica in tutte le sue anglofone accezioni, problem solving, debate, cooperative learning, flipped classroom), gli altri siedono invece nei loro tristi banchi monoposto, comunque felicissimi di essere tornati in presenza a fruire del diritto all’istruzione come nessun altro in Europa. Pare.

L’ironia è d’obbligo, per stemperare l’amarezza. La scuola è sulle prime pagine di tutti i giornali ogni giorno da mesi e non manca in nessun dibattito televisivo, in presenza o virtuale, e sempre, sempre, al centro c’è il come e il dove. Ci avevo sperato, lo ammetto, che per una volta a qualcuno venisse in mente che nella scuola si deve partire dal che cosa e dal perché, ma anche questa volta non è la volta buona. Ci sono altre priorità, per citare la più definitiva delle risposte, e la prima è distanziarsi, stare lontani.

Ma la scuola è un sistema, non un insieme, può funzionare solo se le sue parti entrano in relazione. Soprattutto l’apprendimento, si sa, passa attraverso la relazione (perché, per inciso, il primo compito della scuola è istruire, educare e formare attraverso l’istruzione). Dovremo quindi reinventarci in una relazione distanziata, fondata sulla fiducia reciproca, che abbia chiara la meta, il perché. Che si intenda una buona volta sul che cosa, perché è certo, una volta entrati e seduti come da norma, le ore insieme dovremo pur occuparle! È curioso, non è mai all’attenzione di nessun commentatore la nostra cara vecchia lezione! La ricreazione sempre, la mensa pure, il resto è scontato, purché statico, protetto e igienizzato.

Temo moltissimo la perdita di significato di un fare scuola governato dalla paura, dal sospetto, all’insegna del “portiamo a casa la pelle innanzitutto”. Non può essere questo l’obiettivo da indicare ogni giorno ai ragazzi se, con don Milani, abbiamo imparato che “il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.

L’azione della scuola è sempre politica, dice quale idea di comunità e quindi di Stato si vuole costruire. Partiamo da qui. Capovolgiamo la prospettiva utilizzata finora, che ha immesso a pioggia le risorse economiche senza definire prima il modello per cui utilizzarle, creando le premesse di uno spreco enorme, ingiusto, che fa rabbia. In un momento in cui nessuno strumento che non sia strettamente personale può essere usato, in cui non si possono condividere libri di testo né copiare durante il compito in classe, qualsiasi risorsa che non sia se stessi sembra superflua, nella scuola. Partiamo da qui, allora, dall’immateriale. Educhiamo per sottrazione e smettiamola di potenziare, estendere, aumentare, aggiungere, come facciamo da troppo tempo. Visto che dobbiamo star fermi, andiamo a fondo. Prendiamoci il tempo per formulare domande, per cercare le parole giuste, per pensare da soli e disconnessi. Riscopriamo lo spirito di adattamento e definiamo i bisogni reali. Sperimentiamo una comunità che si riconosce nel diritto di ciascuno ad esserci, a fare la propria parte come sa e come può. Facciamo spazio, se ne abbiamo, non occupiamo ciò di cui non abbiamo assoluto bisogno. Rispettiamo il sapere, ricerchiamolo. Facciamo tutto con gratuità.

Fare “come prima” non si può e non si deve, peraltro non serve a nessuno. Si chiama anacronismo, o più semplicemente pigrizia, paura. Possiamo fare meglio. Possiamo fare senza.

*Elisabetta de Palma è docente presso il Liceo “C. Poerio” di Foggia. Da sempre è attenta ai temi della promozione della lettura nelle scuole.

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