L’amore che accoglie. Mirko e Giada e un sentimento che supera le differenze di genere

by Livio Costarella

«Come fa questo amore che dall’ansia di perdersi ha avuto in un giorno la certezza di aversi», cantava Fabrizio De André in Dolcenera. Già, come fa l’amore a stabilire il sottile confine tra il perdersi e l’aversi, tra l’esserci e il non esserci? Questioni che da millenni incarnano l’inevitabile diatriba tra ragione e sentimento: con la prima che ostacola sovente il secondo. Se non il contrario. Eppure ci sono storie che quel confine l’hanno toccato più volte. E – udite udite – senza spargimenti di sangue.

È la storia bellissima e accecante di Mirko e Giada, due ragazzi comunissimi e innamorati, oggi poco più che ventenni: due «anime salve» (per citare ancora Faber) fotografate e filmate dall’occhio attento e talentuoso di Stefano Sbrulli, trentaduenne visual designer, fotografo e regista laziale, che con loro ha esordito dietro la macchina da presa. Accompagnata dall’obiettivo fotografico.

Ma che avrà mai di straordinario la storia di Mirko e Giada, tanto da far concorrere il cortometraggio «Mirko» (2018), realizzato da Sbrulli, in undici festival, tra numerosi premi e riconoscimenti? In particolare «Mirko» è stato programmato con grande successo al Bari International Gender Film Festival del 2018, tra i primi a fargli raccogliere consensi e attestati di stima. Bene, allora val la pena di raccontarla questa storia, fondata sulla «certezza di aversi».

Mirko e Giada si sono conosciuti in una chat diversi anni fa. «Per cinque anni sono cresciuti insieme – spiega Sbrulli – nonostante la distanza: lui di Roma, lei di Cremona. Hanno condiviso virtualmente l’adolescenza confidandosi i primi amori, le prime delusioni, fino ad innamorarsi l’uno dell’altra. Dopo anni passati dietro ad un computer Giada decide che il momento di incontrarsi è arrivato. Vuole vivere con Mirko e iniziare un futuro insieme. Mirko però ha un segreto che ha tenuto nascosto tutto questo tempo: è una donna, si chiama Silvia e vuole iniziare il percorso di transizione di genere. Prima di qualsiasi decisione, Giada deve saperlo. La notizia scuote Giada, quella bugia va oltre qualsiasi immaginazione, ma è innamorata e decide di seguire il suo cuore. Oggi, sono quattro anni che Mirko e Giada vivono in un piccolo paese nella periferia di Roma».

Sbrulli comprende, prima di tutto, che questa storia può diventare un progetto fotografico. Di quelli che possono insegnare tanto sull’amore, o sul concetto piuttosto chiaccherato di «normalità». È qui che nasce «Insieme a te. Una storia d’amore», una serie di scatti che Sbrulli raccoglie convivendo con la quotidianità di Mirko e Giada. Dal 2016 al 2018.

«Tanto è durato, in effetti, il periodo passato con loro – prosegue Stefano -, anche perché i primi mesi sono serviti per conoscere bene Mirko, per fidarci reciprocamente. Per entrare sommessamente e con discrezione nel suo mondo».

Come ha conosciuto Mirko?

«Nel 2016 la mia coinquilina frequentava la sua stessa università. Dunque è stato facile incontrarsi, come avviene tra amici di amici. Quando abbiamo iniziato a diventarlo anche noi, Mirko aveva ancora delle sembianze nettamente femminili, compresa la voce. Era un ragazzo transgender che aveva iniziato la sua transizione di genere. All’inizio c’è un iter soprattutto psicologico da percorrere. Bisogna rendersi conto di quanto tu davvero voglia fare un passo così decisivo. Tra l’altro il 2016 è stato un anno molto importante per la tematica gender: se ne discuteva e se ne parlava moltissimo in ogni ambito».

Cosa ha pensato quando è entrato nella quotidianità di Mirko?

«È una vicenda decisamente inusuale: la famiglia ha accettato in pieno la sua scelta. E quella con Giada si è rivelata una storia generazionale d’amore molto importante. L’ho compreso subito. Una liaison nata in chat come tante, in una dinamica oggi molto comune. Per cinque anni Mirko e Giada sono stati amanti virtuali, e Silvia si nascondeva dietro un username maschile. Era abbastanza semplice: l’essere celato dietro un pc giovava alla causa di Mirko, nonostante foto e telefonate».

Fino a quando poi Giada ha fatto il grande passo: il viaggio da Cremona a Roma per conoscerlo.

«Ed è lì che il puzzle di questa storia si è composto come in un miracolo. Giada, poco più che ventenne (come Mirko) stava compiendo il “salto”: lasciare la propria città per conoscere il ragazzo che ama. Ma viene a sapere la verità, nascostale per cinque anni. Nonostante ciò, per lei non cambia nulla: decide di proseguire. Perché è semplicemente innamorata. La testimonianza che ci regala il suo gesto è che l’amore vince ogni cosa. Anche e soprattutto le differenze di genere. Non è stata insomma una semplice cotta adolescenziale: si è dimostrata una vera storia d’amore. Talmente estrema, quanto esemplare: Giada era veramente innamorata di quella persona ed ha accettato subito la verità».

Da lì in poi lei ha deciso di realizzare il cortometraggio e il progetto fotografico?

«In realtà è nato prima il reportage. Soprattutto grazie all’enorme spinta che mi ha dato Emiliano Mancuso, il professore che avevo in quel periodo ad un master fotografico che frequentavo a Roma. Mancuso oggi purtroppo non c’è più, ma lui ha creduto moltissimo in questo progetto, spronandomi a portarlo a termine».

Nelle sue foto si percepisce un contesto urbanistico ben preciso.

«Ci troviamo in una zona periferica di Roma, con una dimensione del “popolare” che rasenta anche il trash in certe situazioni architettoniche. Per più di due anni anni ho passato molto tempo con la famiglia di Mirko: il padre, la madre, il fratello Davide e i tanti animali. E con Giada, venuta a convivere in casa loro».

C’è una foto di Mirko e Giada, in cui sono “King” e “Queen”, come scritto sul retro delle loro t-shirt.

«È un’immagine che trovo decisamente potente: sono molto legati a quei ruoli. Sono il Re e la Regina. L’uno dell’altro. E lo sguardo di Giada, in quella foto, dice tutto. Ma c’è molto altro negli scatti. Come i loro simbolici sex toys. Due intimità spesso accomunate: la famiglia da una parte e la sessualità dall’altra».

Una coppia come tante, insomma.

«Certo. Sono ragazzi che, nonostante la giovane età, hanno fatto tantissimi lavori. Sono ritratti in un bowling, o sulla spiaggia di Torvaianica. Ciò che mi premeva raccontare di Mirko era la forza della sua normalità. Con una famiglia bellissima e molto aperta, capace di accogliere la sua transizione. E qualsiasi nuovo animale entrasse in casa. Come i due pappagalli “inseparabili” fotografati a un certo punto: sono quelli vendibili solo in coppia. Un’immagine in cui, a ben pensarci, chi può stabilire il genere dei pappagalli?».

Oggi è sempre in contatto con loro?

«Sì, Mirko lavora con Trenitalia. È una persona che non si è mai nascosta: ci ha messo sempre la faccia, con la massima coerenza. Ed ho imparato grazie a lui che nelle periferie c’è una umanità da cui dovremmo tutti prendere esempio, a differenza di ciò che il luogo comune può far pensare. Mirko e Giada sono felicissimi e vivono sempre insieme. Hanno due cani, tre gatti e tanti progetti per il futuro».





Stefano Sbrulli (1988) è un visual designer, fotografo e regista.
Ha lavorato in Italia, Serbia, Bosnia, Iraq e Mozambico. Nel 2017 inizia il progetto a lungo termine sulla contaminazione ambientale nella città di Cerro de Pasco (Perù).
Collabora costantemente con la Ong Source International.
Le sue immagini sono state pubblicate in magazine come L’Espresso e Internazionale, i suoi documentari sono stati proiettati in festival nazionali e internazionali, fra tutti il Green Short Film Festival (USA), il Sisak Eco Film Festival (Croazia).
Nel 2018 è selezionato al NOOR-Nikon Masterclass di Torino
Nel 2020 il progetto «Tajo» sulla contaminazione ambientale in Perù è selezionato come finalista nello ZEISS Photography Award 2020. www.stefanosbrulli.com.

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