L’antropologo Marco Aime: “Il virus ci ha messo a nudo. Apparteniamo tutti allo stesso gregge”

by Antonella Soccio

“Col virus di colpo ti trovi tu dalla parte del confine, sei tu l’altro”. È una delle prime riflessioni che il grande antropologo, saggista e scrittore Marco Aime, professore di Antropologia culturale presso l’Università di Genova ha posto al centro del dibattito pubblico sul Covid-19.

Noi di bonculture lo abbiamo raggiunto al telefono per una intervista, che il docente ha voluto svolgessimo col tu.

Eccola.

Professore, nel tuo ultimo libro “Classificare, separare, escludere” hai trattato il principio di autoctonia che viene sempre più strumentalizzato e tradotto in azioni xenofobe violente. Col virus siamo tutti l’altro, il diverso, la persona da confinare. Come cambierà la nostra vita quando le restrizioni sociali diminuiranno?

È difficile prevedere cosa ci aspetta, perché è difficile prevedere la durata, di certo innescherà dei mutamenti che dureranno nel tempo. Il problema è se questa crisi, che una crisi è, innesca delle riflessioni sul nostro modello di società, se così accadesse potrebbe addirittura rivelarsi un fattore, al netto delle vittime, positivo, con un ripensamento di un modello, che si è dimostrato fragile, inefficiente, inadatto. La paura è che invece la nostra memoria corta ci faccia dimenticare in fretta tutto questo, e si ricominci esattamente come prima, riproponendo gli stessi modelli e quindi allora non sarebbe servito a niente e non sarebbero servite a niente neppure le numerose vittime e i disagi che ha comportato e che comporterà in futuro.

Ritieni che se tutto dovesse tornare come prima, le classi più povere, gli stranieri, i malati, i diversi potrebbero essere isolati ed esclusi ancora di più?  

Si è già tentato all’inizio di far passare soprattutto gli stranieri come i portatori di questo virus, tranne poi scoprire che quasi nessuno degli stranieri lo aveva portato e che quindi che il gioco era tutto interno a noi. Il virus è democratico perché colpisce tutti indipendentemente dal colore della pelle, dal conto in banca o dalle idee politiche. Ecco questo dovrebbe innescare una riflessione sul fatto che siamo tutti umani e anche tutti molto fragili di fronte a questi eventi, che non hanno connotazione politica e storica. Ribadisco: se questo serve può cambiar qualcosa, se non si metabolizza questa lezione torneremo ad escludere i più deboli, quelli che consideriamo diversi per colore della pelle, cultura o perché magari colpiti da una malattia o perché hanno diverse preferenze sessuali. Il modo per creare l’altro lo troviamo sempre. Se invece riuscisse a farci pensare che questo virus ha messo a nudo il fatto che apparteniamo tutti allo stesso gregge e che le differenze che costruiamo noi si sgretolano davanti a questa pandemia, saremmo cambiati.

Il virus è arrivato in un momento storico in cui in tutto il mondo stavano crescendo idee sovraniste. Nei prossimi mesi il rischio di un nuovo contagio non potrebbe rappresentare una patente- vediamo ora anche i pieni poteri di Orban- per chiudersi ulteriormente, per ridurre gli spazi democratici e per proporre modelli economici autarchici?

Diciamo che forse non si cessa di stupirci della stupidità di alcune persone e soprattutto di quelli che ci governano. Il voler pensare di risolvere da soli, all’interno della propria nazione- ci ha provato  Orban, ma bastava sentire le prime dichiarazioni di Boris Johnson, di Trump o di altri leader, anche di Macron, in parte anche della Merkel- è un indice di idiozia, perché è come pensare che basti costruire un muro al virus. Il virus non fa distinzioni e si muove tanto più in un mondo globalizzato come il nostro. Se fosse accaduto 100 anni fa, era più facile circoscrivere perché la gente si muoveva meno, ma oggi dove gran parte di noi si muove e prende aerei, viviamo in una economia transnazionale e globalizzata, in cui il movimento è una modalità centrale, pensare che ci si possa isolare o risolvere questi problemi da soli è un segno di una visione corta e distorta. Per fortuna la comunità scientifica lavora al di là dei confini trovare e questa è forse la speranza ti trovare ben presto una soluzione e un vaccino, ma grazie al fatto che gli scienziati collaborano indipendentemente dalla nazionalità e dalle frontiere.

Rispetto alla transnazionalità della nostra vita globalizzata, pensi che con le città svuotate dal virus, la geografia e la voglia di viaggiare insieme al nostro immaginario turistico possano modificarsi?

Questo sicuramente, intanto perché io penso che anche il giorno in cui ci sarà di nuovo una libertà di movimento la ripresa non sarà immediata: non credo che tutti correremo per le strade ad abbracciarci, ci vorrà tempo prima di smaltire questa paura, diffidenza, anche perché adesso sappiamo che questo virus può ripresentarsi non è che una volta chiuso questo ciclo è finita, visto che pare non dia immunità, sarà un pericolo costante. Gli immaginari sono molto più resistenti ai cambiamenti, sono molto più lenti. Stante la nostra visione e la visione degli altri Paesi nei nostri confronti, visto che noi siamo stati additati per primi come gli untori, l’immaginario influirà pesantemente, il turismo sicuramente subirà dei contraccolpi notevoli, la gente avrà qualche riserva ad andarsi ad ammucchiare nei tipici luoghi affollati d’agosto. Non solo gli stranieri non vorranno tanto venire in Italia, ma forse anche noi non vorremo andare tanto all’estero.

Da un punto di vista etico, credo che quest’anno sarebbe anche giusto fare le vacanze in Italia per aiutare i nostri connazionali, che lavorano nel turismo, dall’altro in Italia almeno sappiamo com’è la situazione.

Il turismo si era quasi del tutto democratizzato: era facilissimo andare in una capitale europea con un volo low cost. Quest’aspetto dell’estrema mobilità accessibile a tutti si modificherà?

In una prima fase credo sì, poi a poco a poco si riprenderà una vita diciamo tra virgolette normale. D’altronde ci siamo ripresi dopo 2 guerre mondiali, dipenderà molto anche dal tipo di comunicazione: noi oggi assistiamo ad una comunicazione fortemente ansiogena, qualunque canale a qualunque ora parla solo di questo. Un dato che dilata ancora di più la percezione dello stato di crisi. Nel momento in cui si comincerà a parlarne meno forse avremo un rapporto diverso con la realtà. Però non credo che i tempi saranno brevi.

L’informazione dilatata ha creato anche un fenomeno molto strano: è sembrato che tanti italiani avessero estremo bisogno di ordine, come se non riuscissero a fare a meno, in una dinamica infantile, del carnefice, del punitore, del sorvegliante che indichi cosa fare. Come mai professore?

Qui abbiamo assistito ad un fenomeno curioso, gli italiani si sono divisi in due gruppi. Dall’altro curiosamente, rispetto allo stereotipo e al luogo comune, che magari noi stessi abbiamo su di noi, mi sembra che le regole le abbiamo rispettate molto, la maggior parte degli italiani si attiene pienamente alle norme stabilite, in questo siamo virtuosi. Poi c’è qualcuno che trasgredisce, ecco a questo punto siamo diventati più realisti del re, per cui l’attacco verso chi trasgredisce, chi va a correre, chi si avvicina troppo diventa un po’ forte. È come dire: io mi sacrifico e questo non lo fa, l’altro diventa una minaccia. Mi sembra visti i dati che nell’insieme si tratti poi di una minoranza. Tendenzialmente mi sembra che si sia attenuti alle regole anche più del previsto.

Forse è più un fenomeno amplificato dai social?

Certo, perché basta un caso, che però è riportato da un tg nazionale, sembra che ci siano migliaia di persone che vanno a correre o che si ammassano. Certo ci sono stati esempi di stupidità con pullman o con gente che andava a sciare, per non parlare della partita dell’Atalanta. Però eravamo agli inizi.

Cercare il nemico è sempre la soluzione di comodo, ma come dicevi tu il tutto è amplificato dai social, io sono a Torino e non mi sembra di vedere questa gran folla per strada.

Di certo al Sud c’è una minore percezione del pericolo

Sì, è possibile. Su questo ci sarebbe anche da aprire un altro capitolo. Immaginavo che se mai la pandemia avesse colpito il Sud, come sarebbe stato affrontato il tema diversamente dai media e dalla politica. Sarebbero emersi tanti stereotipi e pregiudizi sul Sud.

Essendo successo al Nord, ci siamo almeno eliminati queste bassezze che spesso vengono tirate fuori.

Una bassezza falsa era stata anche tirata fuori parlando di un assenteismo della classe medica a Napoli, poi smentita dai fatti  

A complicare ancora di più la comunicazione oggi c’è questa facilità con cui si possono far facilitare le cosiddette fake news. La rete se da un lato ci agevola molto nella condizione di isolamento dall’altro è ovvio che veicoli molto facilmente delle informazioni fasulle.

In un tuo libro di qualche anno fa “Invecchiano solo gli altri” spiegavi il mito dell’eterna giovinezza e che ognuno di noi vuole vivere il più a lungo possibile. In questa pandemia si sta sviluppando anche questo pensiero nei confronti degli anziani, che la società, spesso per giusta causa, confina nelle rsa e nelle rssa? C’è il tema di una vecchiaia che non si riesce a comprendere e che si cerca di non far finire mai?

Una prima informazione è stata che il virus colpisce solo gli anziani e siccome nessuno si sente anziano, tranne proprio quelli decrepiti ci è sembrato di essere tutti un po’ immuni. Questo ha segnato il dibattito, si è arrivati a paventare che si dovesse scegliere chi lasciar morire, se un anziano o un giovane. Non so quante volte si sia davvero rilevata questa condizione, forse è stata più paventata che reale. Però ha creato un’altra divisione. Adesso si vede che sono stati colpiti dal virus anche persone giovani, senza particolari patologie. C’è stata un modello, un tentativo di individuare una categoria più colpita, che è portatrice di qualcosa di diverso.

Già eravamo una società quasi del tutto secolarizzata, pensi che la pandemia abbia annullato il senso del sacro che ancora sopravviveva? Non è mai accaduto che la Chiesa chiudesse le sue porte ai malati, in nessuna peste, in nessuna calamità della storia e che chiudesse per alcuni riti importanti, come i funerali o i matrimoni.  

È una bella domanda. Già non brillavamo per spiritualità, ma magari questa pandemia avrebbe potuto innescare una ricerca davvero di una nuova spiritualità e di una soluzione da ricercarsi in qualche cosa di più alto, di oltre. Però è anche vero che questo blocco, la non accessibilità ai luoghi ha cambiato la percezione. Neanche nelle guerre le chiese erano chiuse, anche se le guerre sono qualcosa di diverso dal virus: si sa chi è il nemico, anche lì si era moltiplicata l’attenzione alla spiritualità. Oggi l’impossibilità di andare in chiesa o in moschea o in sinagoga, la mancanza della possibilità di celebrare un funerale, che è ancora forse uno dei riti più sentiti della nostra società, dà poche occasioni al sacro: è difficile costruirsi una spiritualità da soli, la spiritualità ha bisogno di ritualità collettive, di vedersi, di contarsi, di sentirsi parte di una comunità.

Questa assenza odierna potrebbe azzerare definitivamente la religione?

Azzerare è un termine troppo forte, però vedere quell’immagine di Papa Francesco davanti ad una piazza San Pietro vuota rende benissimo l’idea. Tra l’altro colpisce anche quanto poco spazio venga dato alle parole del Papa in questo contesto. Ci si è affidati alla scienza, si sentono tutti i giorni virologi, immunologi, medici, che parlano. Mi sembra che ci siamo completamente messi nelle mani degli scienziati, a partire dal Governo, che ha creato un comitato che soprattutto è costituito da specialisti.

Ci siamo affidati alla scienza e come scrivevi sul tuo blog sul Fatto Quotidiano ad una forma etica di filantropia e alla ricerca dell’eroe. È come se una certa spiritualità, una certa alterità sia stata affidata all’immagine del medico, eroe in corsia.

In fondo questa corsa un po’ alla mitizzazione è un bisogno di avere un qualcosa che sta al di sopra di noi. Ho scritto quell’intervento perché il pericolo è che la mitizzazione allontani da noi queste persone che sono quanto mai vicine a noi, il rischio è che sia anche un modo per togliere dalla normalità i medici. Io preferisco avere delle persone perbene, anziché degli eroi. Chi lavora in questo campo oggi sta facendo tanto, ma non ha bisogno di essere glorificato, ma di essere riconosciuto, e quando sarà tutto finito riconosciuto anche sotto altri aspetti. Ci sta salvando gente che è sottopagata. Forse se ce lo ricordassimo potremmo comprendere cosa cambiare dopo.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.