Lo spazio liquido nella città diffusa. Come cambia il rapporto tra abitare, produrre e convivere col Covid

by Roberto Pertosa

Noi non siamo sopra la natura, siamo dentro la natura.

L’uomo da decenni si fa strada disboscando intere foreste, o costruendo infinite volumetrie a discapito di immense aree naturali. Ma nonostante questo, la Natura è tutt’altro che sconfitta, e quando l’uomo interrompe la sua azione devastatrice, essa riprende immediatamente e inevitabilmente i suoi spazi. In tal senso la Natura è estremamente potente, ed è invincibile, almeno nel nostro tempo. Ma la tecnologia attuale, e presumibilmente quella futura, rischia purtroppo di diventare la “nuova natura”. È l’approccio costante e immutabile delle ultime generazioni. La tecnologia è talmente sviluppata, e spesso incontrollata, da poter prevalere, apparentemente e in maniera anomala, almeno finché l’intervento dell’uomo agisce costante e incisivo. Natura e tecnologia finiscono spesso per contrastarsi tra di loro, e in questo atipico perpetuo contrasto sorgono ineluttabilmente pericolosi incidenti di percorso.

Tutti sembra abbiano una visione nitida del futuro. Che conoscano le soluzioni. Che abbiano la risposta a tutti i quesiti. Ma i punti di vista netti non contengono quasi mai il buon senso.

Io cercherò di essere solo me stesso, un idealista/realista che affronterà il tema partendo dal presupposto imprescindibile che il visionario non è affatto un folle privo di controllo e concretezza, che un’utopia è solo ciò che rifiutiamo di immaginare e realizzare, e che i grandi alibi delle antiche coscienze decisamente perdute sono ormai inaccettabili.

Solo per questo non dovremmo limitarci all’ordinario. Il nostro mestiere richiede visione di futuro, soluzioni inedite, capacità di guidare la società verso frontiere nuove. E oggi che tutti abbiamo sperimentato una condizione eccezionale, non c’è momento migliore per osare lo straordinario, di andare oltre la consuetudine.

Con questa unica certezza mi chiederò se questa crisi globale porterà realmente a dei cambiamenti indelebili, e se la nostra società sia moralmente e culturalmente strutturata all’utopia della visione.

Ma cosa cambierà? Come sarà la città del futuro? Come si tradurrà la nuova dimensione introspettiva? E quali saranno le nuove esigenze? Cosa s’intenderà per rinnovate percezioni? Come cambierà l’approccio agli spazi collettivi? Come concepiremo i luoghi specialistici? E che aspetto avranno i nuovi spazi abitativi? E infine quale sarà il ruolo dell’Architetto?

Le domande a cui rispondere sono spaventosamente innumerevoli, e riguardano aspetti infiniti: le interconnessioni, la scomposizione dei nuclei urbani, il significato di nuova natura, l’Architettura identificatrice di civiltà, il genius loci, la necessità dell’opera e della sua essenzialità, la flessibilità, lo spazio, il tempo.

Le mie riflessioni investono aspetti decisamente più ampi, non legati a singoli episodi personali.

Riguardano innanzitutto l’approccio al progetto di Architettura che non cambierà nella sostanza. Progettare un’opera significherà sempre analizzare i bisogni e le necessità dell’uomo, risolvere i problemi e inventare strumenti per migliorare la vita di ognuno di noi. Cambieranno invece i temi da affrontare, e le problematiche da risolvere. Forse cambierà, e dovrà cambiare, l’approccio alla filosofia del linguaggio.

Succederà quello che già doveva succedere da tempo. Ci sono sempre resistenze a qualsiasi tipo di cambiamento, ma il virus è stato un drammatico, straordinario rompighiaccio e acceleratore di coscienze, e di una serie di valori, dalla sostenibilità alla competenza, a una nuova qualità del tempo e dello spazio, che stiamo già vivendo.

Trasfomazione sociologica

Quello che rappresenta la vera novità è l’evoluzione del rapporto con la nostra solitudine produttiva, come risultato dell’emergenza comportamentale di distanziamento sociale e della permanenza nelle nostre case, il quale rapporto modificherà molto probabilmente i paradigmi dell’Architettura. Un argomento etico prima che tecnico, che riguarda anche e soprattutto il rapporto interpersonale, oltre che personale, che potrebbero essersi modificati.

Il silenzio della nostra stanza deve farci riflettere sulla trasformazione comunque in atto, che è una trasformazione sociologica, introspettiva. È una delle storie da raccontare, e che riguarda quindi la trasfigurazione dello spazio che diventa sempre più liquido (mediante la compenetrazione nei luoghi di funzioni e comportamenti inediti), all’interno di una città che dovrà necessariamente diventare sempre più diffusa (con la frammentazione della città in micro città), in un mondo che ha perso la dimensione del tempo, e in una società dominata dalla velocità e dall’ansia in cui riscoprire il valore della “lentezza”, e ristabilire uno spazio per la riflessione su come deve necessariamente cambiare il nostro modo di vivere, di lavorare, studiare, ricevere assistenza e cura, e creare la dimensione in cui apprezzare nuovamente le persone e le cose che ci stanno attorno.

Ossia il capovolgimento del nostro rapporto con lo spazio e con il tempo. Da un prima, in cui avevamo poco tempo da dedicarci e moltissimo spazio da attraversare, a un dopo, in cui abbiamo molto tempo da trascorrere confinati nello spazio domestico, spesso molto ridotto, con il desiderio sfrenato di una sua nuova qualità, da risolvere però senza sopravvalutare la distanza fisica che non corrisponde affatto a quella psichica, la quale ultima in realtà si è molto ridotta. Infatti dall’inizio della pandemia le persone si sentono molto più vicine, più empaticamente connesse, e solo nella successiva fase 3, quando lo shock collettivo si attenuerà, scatterà il meccanismo del riavvicinamento fisico che acquisterà forse pari dignità di quello psichico, anche se più selettivo.

Per cui il ruolo della progettazione assume un’esigenza fondamentale connessa alla ricerca di uno stato di benessere personale, e di riflesso di una intera società, in relazione alla fusione dei luoghi e degli stati d’animo. Ed esso cambia in relazione alla dilatazione delle bolle prossemiche, cambia come cambiano le stesse funzioni dell’uomo all’interno dello spazio, le distanze tra le persone, il rapporto tra i corpi all’interno di uno luogo, nonché quelle impressioni spirituali che assicurano un distanziamento che non è più sociale ma piuttosto “un diverso respiro attorno a noi, che porta a un avvicinamento psichico”.

Una nuova visione della cultura progettuale che possiamo definire come decongestionamento degli spazi, e come percezione della dinamica tra distanziamento fisico e distanziamento psichico; e chi non si adeguerà a questa nuova indagine della dimensione resterà fuori da un certo processo evolutivo.

Quindi lo stesso luogo individuale, come spazio fisico, si rende sempre più liquido, in rapporto alla compenetrazione di altre funzioni dentro quella dell’abitare. La casa, soprattutto, viene riscoperta non solo come luogo fondamentale, tornando ad assumere il ruolo di rifugio sicuro che l’origine del concetto di Architettura gli aveva assegnato, ma diventa anche luogo produttivo, sebbene almeno temporaneamente e artificialmente, in cui si dissolve impercettibile la nostalgia del luogo di lavoro.

Lo spazio abitativo riesce a umanizzare il processo evolutivo del concetto stesso di lavoro, ma anche il processo del pensiero. Si ha più tempo per pensare, per riflettere, per studiare, una sorta di dilatazione del tempo che prescinde dal bisogno dell’incontro fisico con le persone, ma non lo esclude ovviamente, bensì lo rimanda, e che trasmette la percezione di una trasfigurazione antropologica delle condizioni esistenziali dell’uomo.

Certamente la concezione dell’ufficio come luogo tradizionale di lavoro persisterà ancora, certamente meglio gli incontri diretti del digitale, ma è in atto più che altro un processo interiore che si identifica in un recupero introspettivo che ci farà apprezzare e valorizzare gli spazi che abitiamo, in cui lavoriamo, eliminando il superfluo delle nostre azioni, il superfluo delle cose, e recuperando le valenze dell’agire, oltre ad amplificare a dismisura le nostre potenzialità consentendoci di godere appieno di tutte le diverse situazioni.

Smart working

Lo smart working apre certamente, in tal senso, scenari interessanti, ma non può sostituire completamente il rapporto sociale del nostro lavoro, quello puro di relazione.

E’ indubbiamente un salto quantitativo grazie al quale le persone capiranno la vera funzione della tecnologia, che in questi mesi ci ha aiutato paradossalmente a essere più umani, a raggiungere chiunque in ogni momento, a dialogare con amici e parenti in videochiamate, e che ha permesso a maestri e insegnanti di esercitare le loro competenze e conoscenze. La tecnologia si è trasformata in ciò che deve essere: uno strumento utilissimo per risparmiare tempo, inquinare meno, alimentare una maggiore intensità di relazioni, senza peraltro sostituire la straordinaria ricchezza dell’approccio fisico.

In realtà il mio lavoro di Architetto, come presumo tanti altri, è un lavoro di relazione, di scambio perenne e quotidiano attraverso mille forme: dal prendere insieme un caffè alla discussione su un progetto. Lo smart working mi priva di questo aspetto sociale fondamentale, come anche di quella pressione costante positiva presente in studio, e la frenesia che ne deriva, che è quel sistema che genera creatività, idee e proposte innovative. La progettazione ha infatti bisogno di dialogo, del disegno “fisico” e della sua interpretazione.

Il mio studio non mi è mancato, ma mi era necessario. La comodità di lavorare a casa mi ha reso paradossalmente prigioniero a un luogo che non dovrò raggiungere perché già presente, perennemente in connessione, perennemente a disegnare, a progettare, a pensare, esortandomi a lavorare molto di più.

Questa tragedia epidemica forse però ci sta insegnando che molti appuntamenti, spostamenti, meeting si possono diminuire, ma certo non si possono cancellare, e che si era più generosi nel concedersi. Ma questa smania di rimanercene a casa anche in futuro, di essere più smart, mi sembra più che altro emozionale e costruita. Io ho bisogno dei miei incontri fisici con i miei colleghi di lavoro, con le maestranze, con i luoghi di produzione, i cantieri, per discutere su un progetto, sui dettagli, e anche per litigare. Ho bisogno di veder realizzati i prototipi per avere la certezza di limitare drasticamente gli imprevisti. Il rapporto diretto con gli interlocutori, chiunque essi siano, e non effimero attraverso uno schermo, è imprescindibile, e l’interscambio con il singolo artigiano, con la controparte, è un interscambio non solo gestionale ma anche e soprattutto intellettuale, sofisticato, che rende possibile la creazione di una cosa, in un rapporto tra me e chi come me agisce parallelamente nella creazione.

L’architetto non è nulla se non esiste una controparte netta, se non c’è anche una visione parallela, in una gara di chi è più visionario, in un interscambio fondamentale tra il progettista e chi fa le cose, tra l’Architetto e il committente, che occupano, tutti, spazi umani imprescindibilmente liturgici.

(il testo è un estratto di un saggio breve dell’architetto Pertosa pubblicato col titolo “Lo spazio liquido nella città diffusa”)

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