Parla Vendola: “A sinistra, abbiamo il dovere di ricostruire il vocabolario della vita in società”

by Felice Sblendorio

Da quasi ventiquattro ore l’Italia ha il suo nuovo Governo: oramai giallorosso, per gli amanti di etichette e simbologie giornalistiche. L’esecutivo, presieduto dal professor Giuseppe Conte, è il frutto della concitata crisi politica agostana innescata l’8 agosto da Matteo Salvini, leader della Lega ed ex Ministro dell’Interno.

Dopo quasi un mese, quando il termometro politico ha segnato tutte le diverse possibilità di svolta – dalle urne subito al taglio dei parlamentari e poi voto per arrivare ad un nuovo esecutivo con il PD – il dato è stato tratto: PD e M5S insieme per un “governo di responsabilità”. Dopo le contraddizioni, gli insulti e le sponde parallele di narrazione sui disastri dell’altro partito, ora sono uniti in un governo dalla fragile composizione e dall’incerta tenuta. Per parlare di questi giorni e dei mesi che hanno portato a questa crisi, bonculture ha intervistato Nichi Vendola, già Governatore della Regione Puglia dal 2005 al 2015 e già leader di SEL – Sinistra Ecologia e Libertà.

Presidente, la crisi provocata da Salvini ha aperto la strada a un governo M5S-PD: è l’alleanza necessaria per questo momento storico del Paese?

Sì, credo che sia un’alleanza necessaria e per certi versi naturale: vi è una comune sensibilità, tra popolo grillino e sinistra, sulle tematiche cruciali della tutela ambientale e della lotta alle disuguaglianze. Ed è assolutamente necessario per fermare la corsa verso i “pieni poteri” di un avventuriero fascista e razzista come Matteo Salvini. L’Italia democratica non merita di essere inghiottita nella spirale dell’oscurantismo e della barbarie di chi fa della disumanità il proprio programma politico.

Non è stata sotterranea, in questa crisi, la paura di un trionfo alle urne di Salvini. Come mai, secondo lei, si è gonfiato così tanto il fenomeno leghista in questi ultimi anni?

La Lega in Italia, così come la destra radicale, sovranista e populista, in tanta parte del mondo, cresce sull’onda della crisi economica globale e cresce ancor di più a causa delle politiche di austerità che hanno spezzato le ossa al ceto medio, impoverito il welfare e fatto crescere a dismisura le disuguaglianze. Il riformismo della sinistra di governo, in Europa e anche oltreoceano, ha sottovalutato gli effetti sociali dirompenti della globalizzazione liberista, ha progressivamente smarrito i propri riferimenti nel mondo del lavoro, ha apparecchiato politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro (leggi Jobs Act) che hanno separato la sinistra dal suo popolo. La sinistra, insomma, si è persa e quindi ha perso. E nel vuoto di sinistra si sono incuneati gli imprenditori della paura, con la loro cialtroneria e il loro cinismo criminale.

I democratici in Europa non hanno retto le mutazioni e i cambiamenti frenetici che la crisi economica ha sviluppato, l’impoverimento, la paura delle migrazioni. Quali sono le colpe più profonde della classe dirigente di sinistra?

La classe dirigente di sinistra si è ammalata di moderatismo, ha inseguito la retorica di una modernità senza qualità, ha invocato riforme che non miglioravano ma, anzi, peggioravano lo stato dei diritti sociali, ha pensato di cavalcare il cavallo pazzo del liberismo credendo di mettergli ogni tanto le briglia, ma non rendendosi conto che prima o poi finiva disarcionata. Ovviamente la mia risposta è solo una sorta di indice di questioni che la sinistra dovrebbe affrontare con coraggio e anche con una certa spietatezza autocritica.

Rino Formica su Il Manifesto ha parlato di una “decomposizione istituzionale del Paese”. Quale cortocircuito, dal punto di vista istituzionale, ha innescato l’esperienza populista in Italia?

Difficile rispondere con una battuta. È un intero repertorio di culture politiche che hanno sfigurato e corrotto il dibattito politico-istituzionale, aprendo molti varchi al radicalismo della destra sovranista: dall’enfasi ossessiva sul tema della governabilità, che significava una sorta di delegittimazione ontologica del ruolo dell’opposizione, una pulsione malata al governismo, un contesto di crescente concentrazione di poteri nelle mani degli esecutivi e la folle criminalizzazione del sistema proporzionale. Poi, il fastidio nei confronti dei corpi intermedi della società e la critica della mediazione politico-sociale immaginata come patologia. E ancora: un’etica del rigore contabile tutta fondata sulla compressione della spesa sociale e quindi sulla conseguente dilatazione dell’area delle vecchie e nuove povertà.

Lei ha detto che il 2019, a volte, le ricorda il 1919. I frutti dei prodromi di quei tempi sono noti a tutti: crede davvero che il Paese possa sbandare in una pagina così buia per la nostra democrazia?

Dico ciò che vedono i miei occhi: non è tornato il fascismo, ma certamente sono tornati i fascisti. Quando nel discorso pubblico e, di conseguenza, nel linguaggio generale e anche nelle relazioni private, torna la voglia di roghi purificatori contro gli zingari, contro gli ebrei, contro gli omosessuali, contro gli stranieri e contro chiunque appare diverso rispetto alla repellente, falsa e ridicola normalità di questi nostalgici dell’olio di ricino e dell’uomo forte, allora siamo tutti in pericolo. Il linguaggio deturpato, involgarito, contundente, semina veleni, organizza pensieri cattivi, sdogana le parole della fogna e della forca. Noi abbiamo il dovere non solo di lottare politicamente contro questa deriva, ma anche di ricostruire il vocabolario della vita in società.

Lei viene dal Pci, da una politica che – almeno nelle forme e nei modi – sembra lontanissima. Le fa paura l’assenza totale di una cultura politica di massa e questa legittimazione politica del rancore?

Spesso mi è capitato di sentirmi inattuale, anzi anacronistico, disorientato dal ruggente nulla che abita tanta parte della politica. Tuttavia la nostalgia, che pure in me ha una sua stabile resistenza, non è mai la risposta ai tanti problemi che precipitano addosso. I nostri avi erano molto più poveri di noi, molto più soli, molto più perseguitati: ma hanno saputo fare la cosa più importante: socializzare, costruire una narrazione, un pensiero critico, reagire al fatalismo, immaginare una grande passione collettiva. Secondo me, mutatis mutandis, è ancora questa la chiave del futuro. Ricostruiamo un vocabolario che aiuti a capire il mondo per cambiarlo. Il rancore su cui investono i populisti è l’espressione nevrotica e malata del bisogno di avere speranza.

I populisti si sconfiggono con una sinistra radicale, ha detto spesso. È proprio sicuro sia questa la ricetta giusta in un Paese ammaliato dalla destra più estrema e corteggiato da un centrismo spaesato?

Urgono risposte radicali alla crisi del mondo: una crisi economica, sociale, politica, ecologica, persino antropologica. Radicale non vuol dire estremista, ma vuol dire capace di andare alla radice dei problemi. Dinanzi al riscaldamento globale non servono proclami roboanti e interventi di facciata. Davanti alle smisurate diseguaglianze che imprigionano e soffocano il nostro tempo non servono elemosine e qualche ammortizzatore sociale. Se la sinistra continua invece a perseguire la politica della riduzione del danno, come nelle politiche migratorie, si predispone alla disfatta. La sinistra non è morta certo di massimalismo, direi piuttosto di minimalismo.

Lei parla di teorie politiche mentre ha giurato un Governo frutto, secondo molti, di un grado elevato e superiore di trasformismo. Le idee, i valori e il senso sulle cose del mondo sono scomparsi?

Ecco, non so se il trasformismo è una categoria adeguata a descrivere la politica contemporanea, quella che cavalca l’onda dei social praticando il surf della demagogia, quella che vive nell’eterno presente e non ha radici e bibliografia, quella che chiede non i berlingueriani “pensieri lunghi” ma parole scarne, magari cuoricini e faccette ridenti o rabbuiate, quella che surroga il dibattito con la prova dei like…

Zingaretti ha ribadito che la stagione dell’Io è finita, auspicando un ritorno al Noi, a un sentire politico più condiviso. Come si ricostruisce una comunità politica credibile dopo le ultime débâcle elettorali?

Speriamo che sia davvero finita la stagione di quel leaderismo autoreferenziale, che è esiziale per la sinistra ma va bene a destra. È un bene che cominci la stagione del “noi”: ma il primo compito che “noi” abbiamo è quello di non rimuovere le ragioni di una sconfitta che non è solo elettorale, ma che è molto di più: è la marginalizzazione dei valori e del vocabolario con cui la sinistra ha restituito protagonismo, cittadinanza e dignità sociale a intere generazioni.

La prospettiva più larga, oltre il Governo, è quella di correre assieme alle prossime regionali. Attenzione alta in Emilia Romagna, ma anche in Puglia. Crede che nella regione che lei ha governato sia questa l’unica via praticabile per bloccare l’avanzata della destra a trazione Lega?

Spero che la coalizione che governa la Puglia sia in grado innanzitutto di rendere più chiara e limpida la propria idea di futuro, anche correggendo uno stile di governo spesso improntato a improvvisazione e trasformismo.

Le sue due vittorie in Puglia furono precedute da una grande partecipazione popolare. Se dovesse isolare un solo elemento che fece grande quel suo progetto per ridare linfa alla sinistra italiana, quale sceglierebbe?

Fummo capaci di coniugare in un progetto inedito e forte due ingredienti decisivi: innovazione e solidarietà. E quello fu un progetto che animò di passioni civili la Puglia migliore: i giovani, l’intellettualità diffusa, le donne, il mondo del lavoro, l’associazionismo sociale e quello culturale, l’universo delle disabilità e i laboratori delle eccellenze. Mettemmo in circolo una narrazione alternativa al malgoverno della destra: e un popolo si levò in piedi per scrivere quella storia nuova.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.