«Ci sono poche passioni in giro. La politica ha perso il suo posto nella società». Luciana Castellina e l’incontro con Nichi Vendola ai Dialoghi di Trani

by Felice Sblendorio

La vita di Luciana Castellina può essere letta attraverso le sue passioni. Totalizzanti, come quelle del Novecento: la politica, nel PCI dal 1947 fino alla radiazione nel 1969, i movimenti, la sinistra, il femminismo e i giornali con la fondazione – assieme a Magri, Natoli, Parlato, Pintor e Rossanda – del quotidiano “Il Manifesto”. Ancora oggi, a novantatré anni, è la passione a muovere l’attivismo e animare la lucidità di Castellina, oramai spaesata nell’Italia dei partiti senza anima e delle passioni tristi. bonculture, in occasione di un incontro speciale fra lei e Nichi Vendola in programma domenica 25 settembre per I Dialoghi di Trani, ha intervistato Luciana Castellina.

Castellina, ai Dialoghi di Trani parlerà con Nichi Vendola delle passioni durevoli.

Sono molto contenta di questo dialogo. I rapporti personali in politica sono importanti. Con Nichi, un compagno molto più giovane di me, ci lega una storia comune. Abbiamo fatto un percorso simile, siamo rimasti molto polemici nei confronti della fine del PCI e oggi ci ritroviamo, dopo l’esperienza di Rifondazione Comunista, in uno stesso partito. C’è un rapporto molto stretto, e in politica è ancora indispensabile condividere esperienze comuni.

Le passioni, nella politica di oggi, come si sono trasformate?

Ci sono poche passioni in giro. La politica ha perso il suo posto nella società. I giovani, ad esempio, io non credo che siano spoliticizzati. Non si riconoscono in un dibattito parlamentare che ha poco a che fare con la politica. Quando in parlamento si parla di bonus e di bollette senza mai risalire alle cause di quei problemi, senza che ci sia mai una presa di consapevolezza di quello che sta succedendo nel mondo, capisco benissimo che non c’è modo (e motivo) per interessarsi a quel tipo di dibattito. I giovani non possono essere coinvolti per discutere di dettagli o per ripetere solo quello che è già stato proposto dal leader del partito. La politica deve ritrovare il suo movimento e ricostruire un dialogo con il popolo per ricomporre quella frattura creata da una politica istituzionale troppo slegata dalla realtà.

L’orizzonte dei partiti non sembra essere quello che lei descrive.

Ci troviamo in un passaggio epocale della nostra storia: sta finendo un mondo che abbiamo conosciuto e si presenta un futuro che bisogna scandagliare. Tanti pensano che ci sia una continuità con quello che abbiamo vissuto negli ultimi cinquant’anni, ma è un’illusione. Nulla sarà più come prima.

Che cosa intravede?

Non si potrà più pensare allo sviluppo su un metro che calcola quanto profitto è stato fatto, ma bisognerà capire di che cosa ha realmente bisogno la gente. Che non sono i mille prodotti superflui del consumismo, ma è la scuola, la sanità, la scienza, gli ospedali: la felicità. Il dramma ecologico è un’evidenza, ma il parlamento non ne discute. La transizione va bene, ma è più importante sapere dove si transita.

Ha sempre teorizzato che la politica senza l’amore non cambia le cose. L’amore, oggi, dov’è?

Non ci può essere amore per la politica se non c’è la sensazione di un grande impegno collettivo, di una consapevolezza radicata rispetto a quello che si può fare. I giovani, la politica la trovano in autonomia, ma in modo spezzettato, marginale, senza un impatto complessivo. Come si fa ad avere amore per la politica in questo scenario?

Lei ha sempre cercato la politica nel rapporto con l’altro. Quel legame, oggi, è stato reciso?

Il nostro sistema, quello della fase attuale del capitalismo, è fondato sulla competizione: ci fa credere che da soli ce la caveremo, che possiamo arrangiarci. Così l’azione collettiva, che è la base fondamentale per un interesse generale, svanisce. Si è creata in Occidente un’etica ufficiale e ufficializzata che è quella della competizione. Ma è difficile pensare che ci possa essere ancora un’azione e una passione per la collettività se l’ideale è quello della competizione o dell’esaltazione dell’io.

Anche gli spazi per incontrarsi si sono ridotti: molti sono chiusi, altri abbandonati o vuoti.

Non ci sono più gli spazi. Le città sono fatte in modo tale che ci siano solamente i bar per la movida: è quello l’unico incontro possibile. Questa è una forma mentale. Prima le sezione di partito, e penso al PCI, erano luoghi in cui c’era cultura, discussione, una comunità che si incontrava e cresceva insieme. Oggi crediamo che la politica si possa fare schiacciando un sì o un no dal computer, ma non è così. La crisi della democrazia è, in primo luogo, una crisi delle comunità politiche. 

Perché nessuno più coltiva la passione di cambiare il mondo?

La politica, nella storia, ha sempre avuto a che fare con la necessità difficile e complessa del cambiamento. La Rivoluzione Francese non è stata sicuramente più semplice delle sfide del presente, ma oggi c’è l’idea falsa che non si può cambiare, che non c’è nulla da fare, che il mondo è così e così resterà. E c’è un pericolo che mi turba.

Quale?

Il disprezzo per le minoranze. Il mondo l’ha sempre cambiato una minoranza: le maggioranze sono conservatrici per natura. Le minoranze possono ancora attivare un cambiamento e provocare una scintilla.

La rivoluzione oramai ha lasciato il posto all’istinto di conservazione?

Esattamente. Ma noi siamo in un momento in cui la rivoluzione è obbligatoria, è una condizione imprescindibile, non è più un optional. Se non cambiamo culturalmente e strutturalmente il modo di consumare e produrre, finiremo in una barbarie violenta prodotta dalle miserie e dalle disuguaglianze. Il cambiamento deve essere molto radicale. Si deve immaginare una decrescita, che non significa tornare al Medioevo oppure convertirsi a una vita francescana. La decrescita deve produrre un altro concetto di felicità: lavorare di meno, avere più tempo per la vita sociale e culturale, avere più servizi anziché merci, essere protagonisti anziché spettatori delle cose.

La sua sinistra, in questo scenario, che cosa fa?

Qual è la sinistra in questo Paese? Letta invoca i valori della NATO e degli Stati Uniti. Mi riconosco poco in questa sinistra che, oramai, è un concetto vago. La Meloni, invece, è dichiaratamente fascista, ma ci sono brutture della nostra società che non sono fasciste e restano ugualmente brutture da cambiare.

Come si ricostruisce una sinistra, allora?           

Non appiccicando pezzi incoerenti fra di loro, ma ripartendo dalla condivisione e dalla speranza – lo ribadisco – di poter cambiare le cose. È questa la base per rifare una sinistra, per ritrovare i nostri valori e la nostra missione. È un processo complesso, ma necessario. La sinistra deve ritrovare il suo sguardo lungo sulle cose del mondo e deve fermare l’emorragia democratica dando spazio ai cittadini. L’esperienza del PCI è stata un’esperienza di soggettività, di protagonismo. Abbiamo conquistato molte cose dall’opposizione e non dal governo; con una mediazione certo, ma soprattutto con una grande mobilitazione del nostro popolo.

Al Paese manca la sinistra, ma anche il dissenso. Perché è indispensabile il dissenso in un partito politico?

Spesso dico agli amici: vi piacerebbe avere un’avversione dei rispettivi partiti come quella che abbiamo subìto noi dal PCI. Quel nostro dissenso provocò una discussione, una frattura e, infine, un trauma molto forte. Ora qualsiasi persona può dissentire dal suo partito e non succede nulla, conta solamente la parola del leader in tv. Il dissenso non ha più la sua carica. Non sperate, dunque, di avere una radiazione per la vostra parola contraria, tanto non succede nulla: il dissenso non fa più paura.

Il 25 settembre il Paese ritornerà al voto e si prospetta un risultato importante di Giorgia Meloni. La si può considerare una vittoria delle donne?

Se la battaglia delle donne consiste nel fare quello che hanno fatto gli uomini, non è femminismo. Non è un grande risultato diventare e agire come gli uomini. Bisogna trasformare la società in modo che tenga conto della nostra differenza. Servono gli asili nido, non fare il Presidente del Consiglio. Le donne sono entrate in magistratura, sono diventate manager, ma il 95% degli uomini ha un figlio e solo il 30% delle donne in carriera lo riesce ad avere. Il femminismo si deve ancora battere per una società che consenta di fare i figli, di essere differenti, di avere parità nei ruoli e nei meriti. Che una diventi premier non è una vittoria delle donne, figuriamoci se la donna in questione è Giorgia Meloni, una che vuole ritornare alla famiglia patriarcale.

Ma cosa ci dice della sinistra, invece, se l’unica donna ad aver conquistato una leadership in questo Paese è la Meloni?

Ma la Meloni è una donna? Io la percepisco come un uomo. È riuscita a fare quello che fanno gli uomini. La vittoria delle donne, per me, non è essere come loro, ma ribadire una differenza anche nella gestione e nella visione del potere.

Lei quando ha capito che non doveva essere come gli uomini?

Tardi. Ho fatto molta fatica perché per la mia generazione la questione femminile si risolveva nel diventare come loro. Per tanti anni mi sono sentita un uomo piccolo, con qualcosa in meno. Poi ho capito che bisognava ribadire una propria specificità, ma c’è voluto molto tempo per arrivare a questa consapevolezza.

Il femminismo è una delle poche rivoluzioni compiute. L’identità maschile è stata messa in discussione?

C’è una grande crisi dell’identità degli uomini. Hanno perso l’autorità, ma mantengono ancora il potere. Il femminicidio è un fenomeno che cresce perché gli uomini non sopportano che le donne decidano in maniera autonoma. Le vittime sono tutte donne che si sono ribellate per determinare la loro vita. C’è un problema radicale nella ridefinizione dell’identità maschile.

Nella sua vita ha sempre avuto tre punti fermi: «Viaggiare, indignarsi, scrivere». Ancora oggi?

La mia vita mi è molto piaciuta. Nonostante l’età, aggiungo un altro punto fermo: cercare gli altri. L’incontro con le persone è sempre un’esperienza curiosa che mi arricchisce. Questa è, ancora oggi, una mia passione durevole.

L’ultima speranza della sua vita?

Io sono alle prese con un grande problema: quello di avere novantatré anni. Coltivo il sogno di poter vedere cambiare qualcosa prima della mia morte. Siccome ho poco tempo, vorrei che ci si affrettasse, che si corresse.

Qual è la prima cosa che cambierebbe?

Far cessare definitivamente questa guerra. Non ci si rende conto che è una guerra crudele, che non finirà presto. Bisogna fermarla, sennò sarà un dramma per tutti. È la guerra, oggi, il principale problema della nostra vita.

Il movimento pacifista sembra non avere più l’impatto di un tempo.

L’ultima grande manifestazione di popolo è datata 2003 in occasione della guerra in Iraq. Poi ci siamo distratti. Il movimento per la pace non può essere intermittente. Bisogna ricostruire anche quello, ma forse bisogna ricostruire tutto.

In un vecchio libro raccontava la sua scoperta del mondo. La più bella?

La scoperta di cosa può fare la politica: trasformare i sudditi in soggetti. Si è fatto nell’immediato dopoguerra con il PCI e poi nel 1968, che non era una protesta contro i padri troppo rigidi, ma una critica alla modernità dell’orizzonte capitalista.

Vendola nelle sue poesie parla di patrie plurali, collettive, umane. La sua Patria?

La mia patria è il mondo intero.

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