Enrico Letta, la truffa ciellenistica e l’avventura di un povero (demo)cristiano. Le ubbie gauchiste di un partito che esiste solo se è al Governo

by Enrico Ciccarelli

Chissà se è stato il Conte Zio, l’inossidabile Gianni, a suggerire al segretario del Partito Democratico Enrico Letta la disastrosa strategia con cui ha cercato maldestramente di imitare il Silvio Berlusconi del 1994. Magari se lo ricordano in pochi, ma il colpo di genio del Cavaliere in quelle elezioni, in cui sbaragliò la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, fu proprio l’alleanza bifronte: al Nord con la Lega nel Polo delle Libertà, al Centro e al Sud con il Movimento Sociale (non ancora Alleanza Nazionale) nel Polo del Buongoverno.

In realtà quel machiavello era reso possibile da un’ambiguità del Mattarellum, che permetteva di avere nei collegi alleanze a geometria variabile, che invece la molto più seria legge attuale (imperfetta, come tutte; ma un’onesta proporzionale con correttivi maggioritari) esclude in modo tassativo.

La bizzarra intesa con Sinistra Italiana e Verdi (per tacere dell’ircocervo frettolosamente messo in piedi da Luigi Di Maio) significava ipso facto legare organicamente Carlo Calenda ed Emma Bonino a Nicola Fratoianni. Impensabile che il fumantino leader di Azione potesse accettarlo (anche se questo gli costerà probabilmente la rottura con Più Europa).

Come Pierluigi Bersani nel 2013, anche Letta, di fronte alla scelta fra perdere il centro e la sinistra radicale, ha preferito tenersi questi ultimi. E questo perché il Partito Democratico, al di là dei tentativi di gente come Renzi, Gentiloni e Gori, è saturo della cultura, delle attitudini, degli slogan del vecchio Partito Comunista, a cominciare da quel «pas d’ennemis à gauche», nessun nemico a sinistra, che porta invariabilmente a difendere l’ultima edizione della foto di Vasto anziché la vocazione maggioritaria cara a Walter Veltroni, ossia l’ambizione di rappresentare la forza di governo centrale del Paese.

Il bello è che il Pd lo è, se è vero come è vero che da quel 2011 in cui Berlusconi venne disarcionato è stato al Governo per dieci anni su undici, con la provvisoria eccezione del Conte Uno. Perché nel Paese delle demagogie e dei populismi assortiti, quella forza politica e quella classe dirigente continuano a essere o sembrare indispensabili a un assetto che non mandi l’Italia allo scatafascio, che non ne faccia il paria d’Europa e non la esponga a pericolose sirene russe o cinesi.

Una forza capace di parlare con i poteri forti, di far procedere, sia pure a passo di lumaca, il cammino dei diritti civili, di perseguire una strategia lib-lab che tenga almeno in parte il passo con la modernità. Deve farlo senza dirlo, però: perché appena qualcuno lo dice, sia il nominato Veltroni, l’aborrito Matteo Renzi, il prudente Antonio De Caro, scatta il richiamo della foresta dei Soviet, si scalpita e ci si imbizzarrisce.

La scelta obiettivamente stravagante di presentarsi alle elezioni insieme senza avere un’idea comune del «che fare?», anzi ostentando di non averla e garantendo che subito dopo il voto si tornerà distanti, appartiene ad una concezione della politica e della democrazia che hanno poco a che fare con i modelli liberali e laburisti. Rimandano piuttosto al mantra e al mito dell’unità antifascista, del Comitato di Liberazione Nazionale, dell’Union Sacrèe contro il barbaro invasore.

Il pastrocchio lettiano è l’epitome di una politica che non punta a vincere e a governare, ma a non far vincere il Nemico, il Grande Satana, l’Eresiarca. Visto che la democrazia, quella vera, postula il riconoscimento e la legittimazione dell’avversario, essa viene negata in radice. Il Nemico muta sembiante e generalità: può essere Bettino Craxi, Silvio Berlusconi o Giorgia Meloni; ma è in realtà chiunque voglia costruire una democrazia decidente, nella quale, nello stretto alveo delle libertà costituzionali, chi ottiene il consenso ha il diritto di governare, anche senza il permesso del Pd o dei residuati bellici che ne incrostano e obnubilano l’intelletto.

Naturalmente gli stessi propugnatori del ciellenismo e dell’imperativo categorico dell’unità antifascista mostrano con chiarezza di non crederci: diversamente non avrebbero dato l’ostracismo a Italia Viva e soprattutto non imbarcherebbero un Bonelli che ha –forse- il voto dei suoi familiari più stretti lasciando fuori quel patetico leader per caso di Giuseppe Conte e il suo sgangherato e ridicolo Movimento Cinque Stelle o quel che ne rimane.

Giusto per trovare un pizzico di umorismo in tanto desolante panorama, è il caso di notare che la coazione a ripetere, l’insistito Hannibal ad portas che dovrebbe indurre tutti i sinceri democratici ad accorrere a difesa della libertà non ha funzionato mai: Craxi fu abbattuto per via giudiziaria e non politicamente, Berlusconi è stato fermato solo dall’intima sprovvedutezza della sua coalizione (con qualche aiutino estero), Giorgia Meloni continua a crescere nei sondaggi malgrado le periodiche fatwa che opinion maker e tribuni di vario conio le lanciano contro.

Significa che non ci si deve preoccupare del pericolo fascista? Tutt’altro: la democrazia è fragile in tutto l’Occidente, l’opinione pubblica è sempre meno informata e consapevole, il diffuso disagio sociale apre un’autostrada alle parole d’ordine semplificatrici e suggestive che da sempre appartengono al «Fascismo eterno» di cui parla Umberto Eco. Ma per contrastare questa deriva servono proposte autorevoli, battaglie culturali di lunga lena, un saldo europeismo e alcuni «pensieri lunghi»: altro che garantire una cadrega a Giggino e a Bonelli.

Tutte queste considerazioni, beninteso, potrebbero essere smentite dai fatti: magari il prode Enrico riuscirà a fare argine alla marea nera, tenere il Pd al primo posto fra i partiti italiani e per soprammercato fare fuori il perfido Renzi, odiato dai tempi del cambio a Palazzo Chigi. In realtà a scrivere la parola fine sul pessimo Esecutivo dell’attuale segretario Pd fu Roberto Speranza, allora presidente del Gruppo alla Camera; ma è più bello credere all’ésprit florentin del senator Matteo. L’importante è che in ogni caso Letta stia sereno.

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