Giorgia Meloni, il feticcio del presidenzialismo e l’eluso diritto di scegliere chi governa

by Enrico Ciccarelli

La destra italiana, da Giorgio Almirante in poi, è sempre stata presidenzialista. Non stupisce che Giorgia Meloni ne faccia l’asse portante della assai eventuale riforma costituzionale fatta dal centrodestra, né che l’età avanzata di Silvio Berlusconi la colleghi a insensate prospettive di dimissioni per Mattarella. Stupisce ancora meno il riflesso pavloviano con cui il centrosinistra ha effettuato la sua milionesima levata di scudi contro il cosiddetto “uomo solo al comando”.

Non pare che, sgangheratezze senili a parte, la proposta del centrodestra debba destare allarmi eccessivi. E’ vero che lo zoccolo duro dell’Europa Unita è fatto di democrazie parlamentari (vuoi per tradizione, vuoi perché in esso sopravvivono diverse monarchie, simbolo in re ipsa dell’unità nazionale), ma il semipresidenzialismo alla Francese, ancorché modellato sull’irripetibile figura di Charles De Gaulle, ha dimostrato di garantire pienamente le libertà costituzionali, come e forse più dell’imbelle Quarta Repubblica di Guy Mollet, schiantata dalla decolonizzazione e dalla crisi d’Algeria.

Malgrado il “complesso del tiranno” che permeò di sé i lavori dell’Assemblea Costituente, dovuto in parte alle profonde cicatrici lasciate dal Fascismo e in parte forse maggiore alla diffidenza reciproca fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, non mancò chi sostenne la bontà del modello presidenziale, e fra essi spicca un titano della democrazia come Piero Calamandrei. L’opinione prevalente, tuttavia, fu quella di un Capo dello Stato arbitro e notaio, provvisto di poteri assai ampi destinati ad allargarsi e restringersi secondo quanto dettasse l’agenda della Repubblica (quella che i giuristi chiamano la “fisarmonica presidenziale”).

Dentro questa architettura, prevedere che il presidente sia eletto direttamente appare un tantino temerario, e comporterebbe, più che una revisione costituzionale, una vera e propria nuova Costituzione. D’altronde anche la riforma costituzionale approvata dal centrodestra nel 2006, e successivamente bocciata dagli elettori, non contemplava il presidenzialismo, ma un peculiare “premierato forte”, ispirato, fra molte contraddizioni, più al modello tedesco della sfiducia costruttiva che a quello israeliano dell’elezione diretta del capo del Governo.

Ce n’è abbastanza per derubricare le polemiche di questi giorni a borborigmo da campagna elettorale, con il tentativo dei partiti maggiori di soddisfare le intime convinzioni dei propri elettorati di riferimento: la destra a promettere riduzioni della complessità con il rapporto diretto fra il Capo e il Popolo, la sinistra abbaiante alla luna all’insegna del no pasaran!. Non fosse che questo dibattito finto e farlocco ne oscura e ne elude un altro, che è quello sul conculcato diritto dei cittadini di scegliere chi li dovrà governare.

Nella vecchia Europa, infatti, i cittadini non scelgono direttamente né il Capo dello Stato né il presidente del Consiglio. E tuttavia viene loro data un’idea abbastanza precisa della personalità che avrà l’onore e l’onere di guidare l’Esecutivo. Pochi hanno avuto la bontà di sottolineare, parlando dello sfratto di Boris Johnson dal numero 10 di Downing Street, che la crisi è stata tutta interna ai tories, e che il crinito premier è in carica non in attesa di elezioni, ma della nomina di un nuovo leader del Partito Conservatore, che in quanto tale ne prenderà il posto (quasi certamente per ridare subito dopo la parola agli elettori e completare la propria legittimazione). Perché esiste, in Gran Bretagna e dappertutto, un legame infranfgibile fra battaglia politica per il consenso e responsabilità di governo.

Anche la Germania, che da oltre un decennio è governata da coalizioni che non si sono presentate come tali all’elettorato, questo principio è salvaguardato: Oskar Scholz, leader della Spd, è in automatico Bundeskanzler in quanto leader del partito più forte dell’alleanza di Governo. In Italia abbiamo soltanto, dal centrodestra, la timida assicurazione che il partito maggiormente suffragato indicherà il premier: ma se a Giorgia Meloni venisse l’uzzolo di indicare Giancaspero Pincopallino a Palazzo Chigi, nessuno ci troverebbe niente da ridire. E sono lontani i tempi in cui lo statuto del Pd veltroniano sanciva l’automatismo fra il segretario del partito e il candidato premier.

Perché? Perché nel disegno istituzionale italiano il vero potere è nelle mani di realtà extra-istituzionali, ossia i partiti, di cui i Padri Costituenti immaginavano una regolamentazione di diritto pubblico poi rimasta lettera morta. L’elettore si affidava a queste comunità con una permanente delega in bianco, che le classi dirigenti utilizzavano con totale libertà. Un gigante della politica come Enrico Berlinguer non ritenne di convocare un congresso del Pci né nel 1973 per far approvare la strategia del compromesso storico né per statuirne, nel 1981, l’abbandono.

Perversione? Distorsione? No. Naturale conseguenza di una società nella quale i partiti non erano una scelta, ma un’appartenenza. Si votava Dc perché “si era” democristiani, proprio come si votava Pci perché si era comunisti. Queste formazioni politiche di massa (ma valeva lo stesso anche per quelle minori) tempravano la loro classe dirigente in un cursus honorum che raramente prevedeva scorciatoie. Un dirigente nazionale di partito era in linea di massima uno che si era forgiato nella battaglia politica amministrativa, o nell’associazionismo o nel sindacato.

Non potendo più esprimere appartenenze, i cittadini italiani sono stati chiamati a esprimere stati d’animo: se gli piacesse di più la canzoncina-jingle di Forza Italia o la gioiosa macchina da guerra dei Progressisti, la placida bonomia di Prodi e dell’Ulivo o il milionario da votare perché non aveva bisogno di rubare, fino al livore sfanculeggiante dei grillini, avventurosamente riciclatisi in indossatori di pochette, e agli improbabili occhi di tigre di Enrico Letta, passando per la bicicletta di Renzi assist men e Calenda front runner.

Tutti, sia pure con importanti e dal mio punto di vista decisive sfumature, pronti a dirci le mirabilie che faranno (spero, promitto, iuro, coniunctur cum futuro), ma singolarmente restii a dirci perché non le hanno fatte finora e soprattutto chi dovrà farle. Troppa fatica: perché trattare gli Italiani da adulti quando sembrano così contenti di essere trattati come bambini deficienti? Un uomo solo al comando? E perché? Meglio nessuno.

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