Il caso Bari e il funerale dell’antimafia

by Enrico Ciccarelli

Non fingerò che le cronache relative a Bari e al possibile scioglimento del suo Consiglio Comunale per infiltrazioni mafiose mi trovino in una posizione neutrale. Credo che Antonio Decaro sia non solo un uomo probo e integro, ma anche uno dei migliori amministratori d’Italia. È mia opinione che nel passaggio di millennio la città di Bari abbia modificato il suo volto, e che il trentennio 1995-2024 sia stato il più vitale della sua storia anche grazie a tre sindaci molto diversi fra loro come Simeone Di Cagno Abbrescia, Michele Emiliano e Antonio Decaro, con il non trascurabile contributo della «primavera vendoliana» alla Regione Puglia.

Significa che a Bari non ci sia una mafia pericolosa e feroce, capace di un ampio potere interdittivo e molto abile nell’influenzare le scelte dei pubblici poteri? Interi magazzini di carte processuali sono lì a dimostrare che la risposta è sì, e l’attitudine meridionale ai network parentali e di casta, insieme a un indecente e inarrestabile trasformismo politico (come annotava Antonio Polito sul Corriere della Sera di qualche giorno fa) sono pericolosissimi brodi di cultura del malaffare. È abbastanza chiaro che l’indebolimento della politica ha reso più sottili e a tratti evanescenti i confini tra società illegale e legale; le vecchie radici clientelari e assistenziali del potere democristiano e socialista hanno continuato ad allignare nella Seconda e nella Terza Repubblica. Ma se i malavitosi di un tempo si trasformavano in mendìchi zelanti con i vari Vito Lattanzio, Rino Formica e Michele Di Giesi, ora non disdegnano di sedersi nel salotto buono.

Se le cose stanno così, e se è un più che ragionevole sospetto l’intervento attivo dei clan nella competizione elettorale amministrastiva, perché giudichiamo improvvido da parte del ministro dell’Interno Piantedosi istituire una Commissione d’Accesso che dovrà pronunciarsi sul possibile scioglimento del Consiglio Comunale, replicando una purga che dalle nostre parti ha già castigato Mattinata, Monte Sant’Angelo, Manfredonia, Cerignola e Foggia? Perché si tratta dell’applicazione idiota di una normativa idiota. E chi scrive non ha atteso la vicenda di Bari per dirlo, malgrado non si ritenga –come altri- concessionario esclusivo della Verità Rivelata per la provincia di Foggia.

Sciogliere i Consigli Comunali per scongiurare il rischio di infiltrazioni mafiose (è importante capire che si tratta di una misura preventiva e non sanzionatoria), e lasciare per un anno e mezzo o due i cittadini di quel centro privi della facoltà di scegliersi i propri rappresentanti, può avere un senso in quei piccoli paesi nei quali il peso elettorale della malavita può essere determinante. Credere che i clan, le cosche, le ‘ndrine, le batterie e compagnia cantante possano decidere le sorti di un medio centro, di un capoluogo di provincia o di regione è un’idea tanto funesta quanto risibile. Perché una criminalità organizzata così potente si permetterebbe tranquillamente il lusso di attendere il tempo necessario per tornare a comandare, ammesso che le guide prefettizie e la gestione burocratica siano meno permeabili ai loro interessi (ci sono buone ragioni per credere esattamente il contrario).

Perché il legislatore-medico, di fronte a una terapia che non funziona, è inefficare, presenta devastanti effetti collaterali e ha un’atissima recidiva, non la cambia? Perché, come tutte le legislazioni emergenziali, anche quella antimafiosa ha prodotto cancrena, è diventata feticcio. Così un’ottima idea come la Direzione Nazionale Antimafia (pensata un tempo per Giovanni Falcone e oggi guidata da un magistrato ineccepibile come Giovanni Melillo, foggiano di cui i Foggiani dovrebbero andare orgogliosi), diventa una superfetazione di uffici, incarichi, gerarchie parallele, trampolino di lancio per carriere politiche e così via. E il senso di onnipotenza che pervade chi in buona o malafede si ritiene un immacolato cavaliere in lotta contro il Male, porta agli abusi, agli spionaggi, ai dossieraggi.

La fase suprema di questa degenerazione è il passaggio dalla giurisdizione all’amministrazione. Perché l’innato autoritarismo che è il codice genetico di tutte le burocrazie elimina il contraddittorio, il conflitto, la determinazione della verità in modo controversiale e dialettico. Certo, le intenzioni proclamate sono sempre buone. «Non possiamo aspettare i tempi della giustizia» disse un ex-premier al tempo della tragedia del ponte Morandi. E non volendo aspettare si procede per decreti, interdittive, ukase. Anche le pietre sanno che un’interdittiva antimafia è una sentenza di morte per nove aziende su dieci. E ne sono state emesse –indiscutbili, inappellabili, definitive– perché uno dei soci dell’azienda era cugino di un pregiudicato.

Attenzione alle dietrologie d’accatto: è urgente e necessario che a imprese inquinate o peggio sia impedito di abbeverarsi alle fonti della spesa pubblica. Ma lo si deve fare con quelle cose desuete che si chiamano inchieste, con i processi, con le sentenze. Perché la gatta frettolosa fa i micini ciechi, e benché si possa ragionevolmente contare sullo scrupolo e sull’affidamento dei funzionari che istruiscono certe pratiche, non ci rassegniamo all’idea che un imprenditore meridionale sia perciò stesso un paramafioso, così come non ci rassegniamo all’infame retorica per cui un’opera pubblica al Sud è un «regalo alla mafia».

Per questo non solo crediamo, ma auspichiamo ardentemente che il caso Bari segni il funerale dell’antimafia: non della battaglia gloriosa costata la vita a tanti martiri, ma del putrido pantano in cui è stata trasformata dal fondamentalismo, dal giustizialismo e dal pregiudizio. È tempo che si torni pienamente, a Bari e altrove, allo Stato di diritto.

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