Il tempo di Joe

by Enrico Ciccarelli

Domani Joe Biden diventerà ufficialmente il quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti. Per molti è il ritorno alla normalità dopo il quadriennio dell’anomalo Donald Trump, per altri la restaurazione delle élites dopo il sussulto di popolo del 2016. Certamente la battaglia delle democrazie parlamentari contro il populismo segna un punto forse decisivo per le prime, e paradossalmente la rabbia inconsulta degli assaltatori di Capitol Hill ne è l’emblema migliore.

Mi interessa in questo commento parlare dell’opinione espressa da Marco Travaglio che ha detto in tv di aspettarsi da Biden qualche guerra in più e di ritenere “come europeo” che a noi sarebbe convenuto Trump.

La ritengo un’affermazione errata ai limiti del ridicolo, e proverò a spiegare perché. Innanzitutto, è persino superfluo dirlo, la geopolitica insegna che le strategie e le condotte degli Stati, e a maggior ragione degli imperi, hanno linee guida durature, che attraversano non solo governi e presidenti, ma perfino regimi.

Nel corso del XX Secolo, è vero, furono soprattutto presidenti democratici, per molte ragioni, a guidare lo sforzo bellico degli Stati Uniti, che diventavano superpotenza planetaria. Fu il democratico Thomaw Woodrow Wilson a guidare gli Usa durante la prima guerra mondiale, e il democratico Franklin Delano Roosevelt a farlo nella seconda.

Ancora, fu il democratico Harry Truman a dare inizio alla guerra di Corea e il repubblicano Dwight Eisenhower a chiuderla, così come fu il democratico John Kennedy ad avviare il conflitto nel Vietnam e il repubblicano Nixon a chiuderlo. Ma poi le cose sono cambiate: è stato il repubblicano George Bush, nel 1991, a combattere la prima Guerra del Golfo, e suo figlio George W, anche lui repubblicano, a lanciare l’operazione Enduring freedom, con l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq.

Soprattutto, non è affatto vero che gli interessi europei siano favoriti dall’isolazionismo che accompagna spesso le vittorie dei conservatori e della destra oltreoceano. Perché in un mondo interconnesso, se il colosso americano si gira dall’altra parte, l’Europa va incontro a serie conseguenze. Fu proprio l’isolazionismo seguito alla Prima Guerra Mondiale a condurre gli Stati Uniti alla Grande Depressione e a consegnare l’Europa nelle mani dei fascismi, con le note conseguenze. E furono pesanti, anche se meno cruenti, gli effetti della cancellazione degli accordi di Bretton Woods e della parità oro-dollaro decisa da Nixon nel 1972.

Quanto a Trump, anche se ha fatto poche guerre, almeno all’estero, è stato una costante minaccia per l’Europa, con l’aperto sostegno ad una hard Brexit disastrosa e la sponda offerta dal suo ideologo Steve Bannon a tutti i movimenti sovranisti e populisti d’Europa e con la benedizione del Governo Lega-Cinquestelle.

Quindi, con buona pace delle valutazioni superficiali e approssimative del direttore del Fatto, per noi europei la fine dell’esperienza Trump è un’ottima notizia: il nostro rapporto con gli Stati Uniti, che è certamente complesso e molto spesso competitivo, è inevitabilmente collaborativo. Per la buona ragione che siamo certamente l’Italia, la Francia, la Germania, proprio come loro sono la California, il Texas, il New Jersey: ma siamo anche Stati Uniti e Unione Europea, e più ancora Occidente. Parola che non è mai stata tanto significativa. Alla prossima.

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