La terra desolata. Elezioni comunali e altri disastri nella città che dorme il suo sonno pieno di incubo

by Enrico Ciccarelli

Probabilmente Foggia merita di essere «cantata» più da Selvaggia Lucarelli che dal grande Thomas Stearns Eliot e dal suo poemetto del 1922, «La terra desolata». Ci si addice di più l’infima disputa su come qualmente Foggia sia più o meno «brutta» di chissà quale sperduto borgo boliviano che ha avuto la mala ventura di ospitare una persona di scarso acume e comprendonio ma di vasta platea. Verrebbe da dire, parafrasando Proust, «Lasciamo le città belle ai popoli senza fantasia» ma quel sangue innocente nella tabaccheria di via Marchese De Rosa, la terrificante asimmetria tra una vita spezzata con disumana ferocia e il miserando profitto che se ne sarebbe ricavato obbliga chiunque abbia un’anima a lasciare nel dimenticatoio, almeno in questo momento, certi personaggi e certe valutazioni che non sono né giuste né sbagliate, ma semplicemente inconsistenti.

Non fosse per i martiri, per le Francesca Marasco, per i fratelli Traiano, i Francesco Marcone, i Giovanni Panunzio, per i nostri eroi civici che non volevano esserlo (e per i migliori fra gli eroi è quasi sempre così), verrebbe da pensare che sia perfetto per Foggia il verso di Eliot che è fra i più amari della poesia di ogni tempo: «Così il mondo sta finendo: non con uno schianto, ma con una cantilena». Importa poco, sinceramente se si tratti della cantilena consolatoria del rimpianto di un’inesistente grandezza perduta, di quella rabbiosa dei torti e dei soprusi subiti dalle Guerre Sannitiche in poi (particolarmente gettonata in ambito calcistico) di quella spudorata del ciangottio senza scopo della politica. Lo schianto rude, l’urlo, l’episodico irrompere dell’orrore sono transitorie interruzioni, scosse galvaniche nella carcassa della città morente, subito riassorbite dal tran tran messicano e plumbeo della nostra pluriennale controra.

Esagero? Ai vecchi capita spesso. Ma vi assicuro che ce n’è ben donde. Prendete l’ultima  vergognosa vigliaccata, in forma di opinabile scoop giornalistico, in danno di Giuseppe Mainiero, che avrebbe parentele «imbarazzanti» con un esponente dei clan locali. Quasi che l’anagrafe possa contare pià di un impegno pluriennale contro la criminalità e la corruzione, impegno per il quale Mainiero ha rotto con la sua comunità politica d’origine. Se Peppino Impastato, luminoso combattente, fosse nato a Foggia, anziché  dedicargli «I cento passi» avremmo eccepito su suo padre mafioso, e magari arricceremmo il naso anche di fronte a Leoluca Orlando e Sergio Mattarella. Perché Dio confonde coloro che vuol perdere e fa loro scegliere, fra i tanti legittimi motivi di critica che a Mainiero si possono muovere, quello più gaglioffo e insensato. Finendo per accomunarlo alla vicenda che riguarda Raffaele Di Mauro, che è purtroppo di segno ben diverso.

Su questo sarà bene essere chiari; non solo per conoscenza e stima, ma anche per antio affetto, io mi auguro che Di Mauro, sulla cui probità personale metto tutte e due le mani sul fuoco, non mangi la mela avvelenata che più o meno scientemente gli è stata offerta dalle streghe cattive del centrodestra. Nell’ignobile corsa al «Vai avanti tu che a me scappa da ridere» gli è stato messo in mano questo cerino acceso che rischia di essere la pietra tombale della sua carriera politica. In tempi normali le affinità su cui verrà linciato (una suocera dal cognome scomodo, un suocero avvocato penalista che come tutti gli avvocati penalisti non assiste esclusivamente boy-scout e Carnelitane Scalze) non peserebbero più di tanto.

Già nel 2014 la vociferazione sul buon risultato elettorale di Ilaria Mari, sua cognata, si rivelò infondata, avendo la giovane consigliera svolto il suo mandato in maniera esemplare e senza dare adito ad alcun sospetto. Ma se queste affinità sono in aggiunta all’aver ricoperto ruoli di notevole importanza politica nel corso di un mandato disastroso e concluso dal traumatico scioglimento per mafia, diventa una proposta indigeribile. Modificando in parte quello che disse Winston Churchill dopo l’appeasement della conferenza di Monaco del 1939, il centrodestra poteva scegliere fra il disonore e la sconfitta. Ha scelto il disonore, e avrà la sconfitta. Detto in altri termini, le difficilissime elezioni 2023 potevano essere per la coalizione Fdi-Lega-Fi-centristi l’occasione di una rigenerazione che, anche nell’eventuale sconfitta, gli avrebbe permesso di rifondarsi e di incidere sulle patenti contraddizioni dello schieramento avverso. Con questa scelta resta a metà del guado, paradossalmente soffocato dalle sue macerie anche in caso di vittoria.

Per quanto riguarda gli indipendenti, al cui lotto mancherà la presenza di Tito Salatto (me ne spiace personalmente e politicamente, ma capisco le sue ragioni), ecco le mie discutibili valutazioni. Con tutto il rispetto, non credo possa andare oltre la testimonianza la presenza in lizza di Antonio De Sabato. Ovviamente anche le testimonianze sono importanti, ma quella demagogico-giustizialista di Luigi De Magistris mi sembra fra le meno necessarie. Credo che Nunzio Angiola abbia fin qui lavorato molto bene, con una incisiva presenza in termini di affissioni e più di un incontro. Il fatto che emergano accanto a lui candidati di lista (che mi pare il punto di maggior vantaggio rispetto a Mainiero) mitiga la caratteristica di «traversata in solitario» che la sua sfida aveva avuto inizialmente. Nessuno sa dire se le affissioni si tradurranno in voti, ma il lavoro c’è. Peccato per uscite improvvide come l’annuncio di querele per chi «danneggia l’immagine» di Foggia (cfr. Lucarelli). Il sindaco della città si preoccupi piuttosto di far costituire il Comune parte civile nei processi per mafia e corruzione, non di vellicare i malumori di campanile.

Su Mainiero si è detto: da Agostinacchio in poi, c’è sempre stato nel’agone un candidato di «altra destra», ma solo Lucia Lambresa riuscì a essere realmente invisiva, e i precedenti dello stesso Mainiero non sono precisamente brillanti. Questa volta l’identità legalitaria farà più presa? Staremo a vedere. Resta da dire, del cosiddetto campo largo e di Maria Aida Episcopo, matchwinner annunciata che corre il solo rischio di entrare Papa in Conclave e uscirne cardinale. Ne parleremo domani, vista permettendo, perché la franchezza di un antico e indomito combattente della bella politica come Pino Marasco meritano particolare spazio e attenzione. A suivre.

Foto di copertina di Michele Sepalone

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