«I lockdown? Il certificato del fallimento dell’azione politica». Luca Ricolfi e il malgoverno (italiano) dell’epidemia

by Felice Sblendorio

Secondo il sociologo Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino e presidente e responsabile scientifico della Fondazione Hume, non è andato tutto bene. Il sottotitolo del suo ultimo libro, La notte delle ninfee(La Nave di Teseo, 192 pagine, 17 euro), è eloquente: «come si malgoverna un’epidemia». Un atto d’accusa forte contro il Governo Conte e contro il fantomatico “modello italiano” che, nelle pagine attente e rigorose del sociologo torinese, viene definito come una «massiccia campagna di autocompiacimento». bonculture ha intervistato Luca Ricolfi.

Professore, partirei dallo stagno e dalle ninfee. Cosa hanno in comune con l’aritmetica dell’epidemia?

L’epidemia si diffonde con un meccanismo analogo a quello delle ninfee che raddoppiano di numero ogni notte: se non ripulisci lo stagno precocemente, ovvero quando ci sono ancora poche ninfee, inevitabilmente arriva un momento in cui, improvvisamente, la propagazione diventa incontrollabile, e soffoca tutto lo stagno.

La seconda ondata era evitabile?

Evitabilissima, tanto è vero che – fra le società avanzate – una su tre l’ha evitata. Ma per evitarla il governo avrebbe dovuto fare una decina di cose che non ha fatto: blocco del turismo internazionale, piano Crisanti sui tamponi e il tracciamento, rafforzamento del traposto pubblico, messa in sicurezza delle scuole, eccetera. Se le avesse fatto non avremmo avuto bisogno di ricorrere di nuovo ai lockdown.

Dunque, rifiuta l’opinione diffusa che tutti i Paesi occidentali siano stati colpiti dalla seconda ondata.

Su 29 società avanzate, con istituzioni comparabili alle nostre, hanno evitato la seconda ondata Norvegia, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Islanda, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Australia, Taiwan, Hong-Kong. E sto volutamente trascurando i Paesi poveri e/o comunisti, come Cina, Vietnam, Cuba eccetera. E anche nella terza ondata (tuttora in corso) ci sono almeno 9 Paesi (su 29) che, almeno per ora, l’hanno evitata.

Pensarlo come un evento ineludibile ci ha tranquillizzati?

No, ci ha semplicemente resi più indulgenti con l’inazione dei governanti e delle autorità sanitarie.

Dopo aver registrato un valore minimo il 3 luglio, il quoziente di positività è sistematicamente aumentato. In che modo abbiamo sprecato quel leggero vantaggio?

Raccontando bugie vere e proprie, nel caso del governo, che ha costruito il mito del “modello italiano” che tutti ci invidierebbero. E lanciando messaggi molto fuorvianti (per non dire altro) nel caso dei virologi riduzionisti, più attenti a farsi notare in tv che a studiare i meccanismi dell’epidemia.

Quali sono state le mancanze più gravi nella prevenzione della seconda ondata?

Nessuno lo sa con assoluta certezza, anche perché gli “atti mancati” sono una decina, ed è difficile quantificare il danno provocato da ogni omissione. I miei calcoli suggeriscono che un ruolo negativo cruciale l’abbiano giocato tre scelte: la diminuzione dei tamponi fra maggio e agosto, la mancata limitazione dei viaggi da e per l’estero, l’assenza di misure di rafforzamento del trasporto pubblico. Sull’impatto di questi tre fattori esistono indizi statistici molto robusti.

Perché si è accettato un numero di positivi così elevato? La strategia della soppressione, a differenza della nostra, è attenta a ogni singolo caso.

Me lo chiedo anch’io, anche perché l’errore è stato spiegato dettagliatamente al governo fin dalla fine di marzo (lettera del prof. Bianconi e colleghi), e la maggior parte degli studiosi indipendenti non hanno mai avuto dubbi sulla importanza di puntare sulla soppressione, partendo dalla chiusura immediata ed ermetica delle frontiere. Se proprio vogliamo essere indulgenti con il governo, possiamo dare la colpa all’Europa, che ha adottato abbastanza acriticamente l’approccio basato sulla mitigazione, probabilmente in ossequio ai propri totem: libera circolazione delle persone, tutela della privacy, primato dell’economia, subalternità all’OMS.

Sui tamponi – sin dall’inizio della pandemia – ci sono state opinioni contrastanti. Perché sono così decisivi?

Perché se ne fai tanti, e hai un sistema ben organizzato per le quarantene, riesci a ostacolare la circolazione del virus semplicemente “ritirando” per un paio di settimane i soggetti potenzialmente contagiosi. Se invece ne fai pochi, l’epidemia galoppa trascinata dagli asintomatici a piede libero.

Lei parla diffusamente dei lockdown: sono efficaci se sono immediati?

Io sono contrario ai lockdown, che sono semplicemente certificati di fallimento dell’azione politica. Ma se li devi fare, perché sei stato imprevidente e non hai fatto tutto il resto, meglio farli prima e farli duri, anziché tergiversare e inasprirli solo quando capisci che non stanno funzionando. Uno dei grandi vantaggi del protocollo orientale, orientato alla soppressione del virus, è che difficilmente costringe a lockdown generalizzati, perché i focolai sono pochi e possono essere spenti con lockdown circoscritti.

Sostiene che, nel primo lockdown, se si avesse anticipato la chiusura di una settimana avremmo risparmiato cinque settimane di chiusure. È così?

I miei calcoli, basati su dati reali, forniscono questo risultato. Naturalmente si può discutere sui dettagli delle simulazioni e sulle ipotesi, e magari concludere che le settimane risparmiate non sarebbero state 5, ma 4, o magari 6. Ma l’ordine di grandezza è quello.

E in termini di vite?

Meglio lasciar perdere. Quando ho parlato in pubblico dei risultati delle mie stime, mi hanno accusato di “caduta di stile”, come se il rispetto per i morti per Covid ci obbligasse a parlare come se non ci fossero stati, o come se fossero state tutte morti non evitabili. Chi desidera conoscere i numeri delle morti non necessarie li trova nel mio libro, con vari calcoli sulla prima ondata, sulla seconda, e sugli effetti del mancato aumento dei tamponi. Posso però dire una cosa: finora ho ricevuto solo una osservazione critica, ma nel senso che sarei stato troppo prudente nel valutare i costi umani del malgoverno dell’epidemia.

In questi casi la politica non può mediare. Cosa ha indebolito, nella geografia caotica dei poteri fra lo Stato e le regioni, quella mediazione continua, esasperata?

La mancanza di preparazione e di coraggio di quasi tutti i membri del governo. E l’ostinato rifiuto del governo centrale di assumere su di sé, anziché condividerlo malamente con i poteri regionali, il comando della gestione della pandemia, nonostante la Costituzione glielo consentisse.

Anche i settori economici e produttivi si sono cullati su questi ritardi. Ma più ritardi non sono più morti, dunque meno PIL?

Il mondo dei produttori, a partire dalle associazioni che lo rappresentano, non ha capito che la linea delle aperture senza garanzie di sicurezza era suicida, perché avrebbe spalancato le porte alla seconda ondata.

L’economia ripartirà quando ci libereremo dalla paura del contagio?

No. L’economia è stata distrutta dal blocco dei licenziamenti e dal tipo di strategia adottata per risarcire le imprese e i lavoratori autonomi. Si sarebbe dovuto puntare a bloccare il contatore dei costi fissi e ridurre la pressione fiscale sui produttori, anziché elargire “ristori” tardivi e determinati su basi cervellotiche.

Molto spesso ha criticato le opinioni della burocrazia sanitaria. Quanto hanno complicato il quadro della situazione?

Non so se la burocrazia sanitaria abbia opinioni proprie, non negoziate con il potere politico. A me pare che la maggior parte dei membri del Comitato Tecnico Scientifico avessero competenze mediche e organizzative, ma nessuna esperienza o conoscenza nei campi cruciali, quali la gestione delle epidemie e l’analisi dei processi di diffusione.

Scrive: «Quando la cultura dei diritti si spinge oltre una certa soglia, un sistema sociale diventa ingovernabile». È il nostro caso?

Temo di sì. Se il governo fa tutto quel che dovrebbe, il nostro individualismo possiamo anche permettercelo, perché produce danni limitati. Ma se il governo non fa quasi nulla, allora i comportamenti dei cittadini diventano cruciali. Se cerchiamo di cambiare il meno possibile le nostre abitudini di consumo, socializzazione, divertimento, alla lunga ci ritroviamo di nuovo tutti chiusi in casa perché l’epidemia ha ripreso il sopravvento.

La Germania forse ha beneficiato di una cultura incentrata sul naturale rispetto delle regole. In Italia, invece, abbiamo dovuto normare tutto: siamo minorenni della democrazia?

Forse il rispetto delle regole ha contato un po’, ma non dobbiamo dimenticare che i movimenti negazionisti sono ancora più forti in Germania che in Italia. Credo che nella prima ondata la differenza fondamentale l’abbia fatta la preparazione del sistema sanitario nazionale tedesco che – diversamente dal nostro – ha usato gennaio e febbraio per prepararsi. Nella seconda ondata la Germania non sta andando meglio dell’Italia, nonostante un lockdown più tempestivo del nostro. A riprova che, da sola, la disciplina non basta. No, non credo che siamo minorenni della democrazia. Siamo semplicemente una società ricca ed edonista, con un senso civico limitato, come molti altri Paesi europei.

Però, per altri Paesi – in particolar modo quelli scandinavi – individua nei giacimenti di capitale sociale, senso civico e cultura del lavoro tre elementi chiave: la socialità contenuta, il gusto per la solitudine e l’amore per la natura. Secondo lei hanno fatto la differenza?

Sì, il mondo scandinavo, in cui includo anche Danimarca e Islanda, è un mondo a parte, in cui i comportamenti e le abitudini della popolazione hanno molto facilitato l’opera delle autorità sanitarie. Se no sarebbe difficile spiegare due circostanze: tutti i Paesi scandinavi (eccetto la Svezia) hanno evitato la seconda ondata, e nella prima ondata la Svezia ha avuto meno morti dell’Italia nonostante non abbia imposto il lockdown.

Queste, però, non sono abitudini antitetiche con lo spirito totalizzante della socializzazione italiana?

Sì, l’eccesso di socializzazione rende più difficile il superamento di una pandemia. E, verosimilmente, favorisce anche altri effetti collaterali negativi, come il clientelismo e il primato delle “conoscenze” come meccanismo di ascesa sociale.

Da più di un mese siamo nel bel mezzo di una crisi di governo. Una crisi incomprensibile?

No, comprensibilissima. Se l’inazione del governo costa migliaia di morti e il collasso dell’economia, è stupefacente – semmai – che si sia messo tanto tempo a invocare un governo all’altezza.

Nei giorni scorsi ha scritto che, con Renzi, la sinistra riformista è finita. Come giudica le mosse del leader di Italia Viva?

Egocentriche e tardive.

Le opposizioni sono considerate inaffidabili, quasi nemiche. È un sistema politico bloccato?

Finché l’opposizione è considerata un nemico anziché un avversario il sistema non è pienamente democratico. Da questo punto di vista il problema è la sinistra, perché è solo la sinistra che non riconosce legittimità all’avversario politico, né quando si chiamava Berlusconi, né ora che si chiama Salvini, né domani quando (forse) si chiamerà Giorgia Meloni.

Il Pd, stretto attorno al Presidente Conte, è ancorato all’idea di un potere responsabile?

All’idea irresponsabile del potere, direi. Perché il potere per il potere, in una crisi grave come l’attuale, è la massima manifestazione di irresponsabilità.

Il suo libro termina con uno scenario: un premier donna, forse, avrebbe affrontato questa pandemia in maniera più concreta. Perché?

Per una ragione semplice. La discriminazione a danno delle donne non è ubiqua, ma comunque esiste, specie in politica. Quindi, per emergere, una donna deve superare ostacoli più alti, prove più severe.  Per diventare premier non deve essere semplicemente in gamba: deve essere molto in gamba. Insomma, non è che le donne sono più capaci, è che solo ai maschi è permesso accedere al governo anche se sono dei perfetti incapaci.

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