Ingrati, la Sindrome Rancorosa del Beneficato: Maria Rita Parsi descrive le sorprendenti dinamiche dell’ingratitudine

by Claudia Pellicano

Cos’è la “Sindrome rancorosa del beneficato”? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L’eccellenza dell’ingratitudine. Comune, peraltro, ai più. Senza che i molti ingrati “beneficati” abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e perfino l’onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La “Sindrome Rancorosa del Beneficato” è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore che coglie come una autentica malattia, come una febbre delirante, chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente “debito di riconoscenza” nei confronti del suo Benefattore. Un beneficio che egli “dovrebbe” spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo, o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi.

Con queste parole, la Prof.ssa Maria Rita Parsi, psicologa, psicoterapeuta e autrice di Ingrati, la Sindrome Rancorosa del Beneficato, descrive le sorprendenti dinamiche dell’ingratitudine.

Come riconoscere un ingrato? Personalmente, guardo allo “storico” di una persona: se colleziona una serie di relazioni ed esperienze fallite, è possibile trovarsi di fronte a un individuo sfortunato e meritevole di aiuto, ma anche a qualcuno che ha contribuito a fare il vuoto attorno a sé. Ci sono segnali che indichino quando fare, anche a malincuore, un passo indietro, oppure un benefattore dovrà sempre mettere in conto l’irriconoscenza?

Un ingrato lo si riconosce subito: sono persone che, spesso, inizialmente, vengono a chiedere aiuto, sostegno, presentano situazioni drammatiche, disperate, si affidano al benefattore. Il benefattore, quando è una persona sensibile o addirittura ipersensibile, si mette a disposizione empaticamente e cerca di andare incontro alle esigenze di questa persona adottandole di cuore, empaticamente, è quello che chiameremmo calarsi nei panni degli altri. Di solito l’ingrato, dopo essere stato sostenuto, aiutato, dopo aver ricevuto quello che voleva ricevere, adotta i seguenti comportamenti: intanto studia le caratteristiche di fragilità del benefattore, a cui è molto attento; poi, chiusa la “questione”, riconosce il beneficio, ma sminuisce il benefattore, che è sicuramente una persona con una marea di difetti. Naturalmente quando si ha un rapporto con una persona, se ne conoscono le fragilità: solo per fare qualche esempio, il benefattore può essere una persona molto distratta, o che va troppo di fretta, o che fuma, mangia o beve troppo, o che manifesta altri limiti. L’ingrato lo registra, e lo usa per svilire il benefattore: è come dire, sì ho ricevuto, ma lui è fatto così, quindi il primo meccanismo per il quale si può riconoscere un ingrato è che denigra in maniera ipocrita il proprio benefattore ricorrendo a tutta una serie di “imperfezioni” ben registrate. Un’altra modalità è quella che, appena ricevuto il beneficio, sparisce. Magari si fa sentire qualche volta, poi accampa delle scuse, per esempio si vergogna di dar fastidio, e svanisce; c’è poi la terza categoria, che semmai è la peggiore, cioè quello con la sindrome della fotocopia, che, per recuperare l’esperienza fatta dovendo dipendere da qualcuno per uno o più benefici o sostegni ricevuti, diventa la fotocopia del benefattore. Riconosce di aver ricevuto, ma millanta di aver fatto tanto, non solo per il proprio benefattore, ma addirittura per gli altri, quindi lo imita nella modalità che ha acquisito ricevendo il beneficio; in più si pone come colui che benefica il benefattore, quasi fossero andati in pari. Quindi si va dal denigrare svalutando, alla scomparsa, fino addirittura a una forma di restituzione che, da una parte, è imitazione del benefattore, dall’altra è millanteria e disconoscimento di quello che si è ricevuto. Di solito le persone riconoscenti ammettono di essersi trovate in difficoltà in un dato frangente e di aver incontrato delle persone generose verso le quali non provano nessun rancore. Come regola generale, non si dovrebbe mai sminuire gli altri, ma, nello specifico, svalutare e denigrare proprio una persona che ci ha dato è la forma più volgare di irriconoscenza.

Davanti a queste persone è sufficiente allontanarsi?

Intanto è importante prendere atto e ricordarsi che, comunque, il bene si fa disinteressatamente. Un vero benefattore non chiede risarcimenti, fa il bene perché sente che in quel momento è necessario, però naturalmente nota il comportamenti dell’ingrato; poi ci sono anche persone grate, che nel tempo dimostrano riconoscenza. In generale, però, quello che conta è prendere coscienza della persona con cui si ha a che fare.

Ma tra il non ricevere un risarcimento che non si richiede, perché il bene, appunto si fa disinteressatamente, ed essere oggetto di risentimento e ostilità c’è molta differenza. Come ci si salvaguarda da tutto questo?

Da una persona ingrata c’è da temere molto, per cui va decisamente allontanata. Nel migliore dei casi ci si può aspettare l’abbandono, è l’ingrato ad allontanarsi; nei casi peggiori, si passa al meccanismo calunnioso o a quello imitativo, vale a dire a tentativi di prendersi un potere che non si possiede. Gli ingrati, quindi, se si allontanano, è un vantaggio, se, invece, rimangono nella cerchia sono sempre elementi di disturbo, velenosi, persone che comunque, in un modo o in un altro, con arte, bisogna allontanare. Io dico sempre che con i trenta denari ricevuti da Giuda per tradire Gesù lui ci si è soltanto comprato la corda per impiccarsi. La vera, intelligente visione è in quello che diceva Madre Teresa: la vita è un’eco, quello si fa, nel bene e nel male, ritorna. Il bene va fatto disinteressatamente, per il resto, per i casi di ingratitudine, agli altri tornerà quello che hanno messo in moto. Tornerà anche il male che hanno fatto, in altra forma. Non bisogna spenderci energie, è sufficiente chiudere. Un vero benefattore, se ha dato sinceramente, non toglie mai l’affetto, semmai si stacca, ma non perché si penta di aver dato.

È normale provare pena per un ingrato?

Io mi interrogo moltissimo sul perché di questi comportamenti, e mi torna spesso in mente La banalità del male di Hannah Arendt. Sono persone che sabotano se stesse. È vero che fanno del male e che bisogna tenerle a debita distanza, ma più che pena si prova dispiacere per il fatto che siano così sciocche e banali. Non capiscono il valore di aver ricevuto e di aver fatto un pezzo di strada insieme. Dall’altro lato, una persona che fa del bene riceve sempre una contropartita, che non dipende dal riconoscimento esterno, ma dallo star bene, che non è banale, è speciale, è da mente intuitiva. Faccio il bene perché mi piace il bene, e perché provo piacere a farlo. Io credo che Dio perdoni, l’inconscio no. Nell’inconscio di queste persone che, avendo ricevuto, si comportano così, ci sarà sempre una risposta molto svalutante per loro stesse.

Le conseguenze, quindi, sono sia pratiche che psicologiche, sembra che la prima vittima del beneficato rancoroso sia se stesso.

Sì, è un limite, una forma di banalità, ed è improduttivo. Sono d’accordo quando lei dice che fanno un po’ pena, gli ingrati sono decisamente persone che devono trovare delle ragioni forti per poter abbattere l’altro, in quanto hanno bisogno di un nemico per trovare la propria identità. Di conseguenza, trovano anche nel benefattore una persona da ostacolare o con la quale entrare in conflitto, anziché armonizzarsi e riconoscere di aver trovato un alleato, un compagno di viaggio.

Nel suo libro lei porta, come esempi ricorrenti di beneficati rancorosi, persone con un’infanzia povera di attenzioni, le quali guardano ad ogni favore come ad un risarcimento dovuto.

Assolutamente sì, il risarcimento che chiede al benefattore che magari incontra nel corso della vita è rispetto a torti che gli hanno fatto altri. Il che è incredibile perché è come dire tu devi risarcirmi di un danno che non mi hai fatto tu, ma che mi hanno fatto altri e che faccio pagare a te, perché tu sei ricco- non economicamente, ma di possibilità, energie, volontà, speranza, fiducia di poterlo fare. Sei, quindi, da penalizzare. La sensazione dell’ingrato è che comunque nulla basti per ricompensarlo di quello che ha patito. Ha ragione lui e quindi, tu che gli dai, devi essere colui che lo risarcisce di quello che altri- in amore, in rispetto, in tempo, in disponibilità, in coinvolgimento, in investimento- avrebbero dovuto dargli.  

Può succedere anche il contrario, che un’ infanzia particolarmente viziata, quindi un’educazione inadeguata, portino ad uno scollamento con la realtà?

Può portare a credere di dover sempre avere e di non valorizzare nulla di quello che si riceve, perché comunque è sempre troppo poco. Anche qui, comunque, c’è una carenza, io ti vizio perché non ti coltivo. Si vizia per togliersi dai piedi la persona, perché se tu educhi, se tu accompagni, se tu ami, non vizi, ma dai, scambi. In realtà viziare significa elargire senza volersi impegnare realmente, senza costruire con l’altro; non è un fabricando fabricamur di comeniana memoria, è un poter dire di aver comunque dato. Io ho dato, cosa vuoi di più, ora cavatela da te. Anche tutto questo dare dev’essere accompagnato da altro.

A proposito del sentimento d’inferiorità, a me sembra che faccia il paio con altri atteggiamenti patetici: una tendenza all’arroganza, alla ricerca spasmodica di attenzioni, una narrazione di sé in modi ridicolmente grandiosi, e degli altri in termini che li sminuiscono. Sono forme di compensazione rispetto ai complessi di cui parla nel suo libro?

È assolutamente così, è l’arroganza di chi si sente in difetto. Quante volte chi è in torto diventa aggressivo?  È una dinamica che ho verificato molte volte. C’è gente che, se si fermasse davvero a riflettere, dovrebbe riconoscere di dovere ad una persona, o a un gruppo di persone, la propria professione, addirittura l’esistenza, l’economia, gli esordi, e così via. Invece ad un ingrato questo non basterà mai.

È sciocco, tutti abbiamo bisogno di aiuto.

Se lei guarda le dediche dei miei libri, la prima cosa che legge è ai miei maestri, a Giovanni Bollea, a Cesare Musatti, a Emiliana Mazzonis, a Francesca Morino Abbele, a Fabrizio di Giulio. Li trova tutti elencati, perché mi hanno insegnato che i veri maestri sono quelli che permettono agli allievi di superarli, anzi, li spingono a superarli. Questo, per me, è un maestro. Anche dagli ingrati e dai nemici, comunque, si impara tanto, anzi, forse ho imparato più da loro che da chi mi ha spontaneamente apprezzato, seguito, accompagnato, beneficato. Non ho mai dimenticato nessun beneficio ricevuto, nemmeno dai nemici: se c’è una cosa che mi hanno permesso di capire è anzitutto una mia disfunzionalità, poiché se li ho incontrati, sostenuti, protetti è perché tutto sommato avrei dovuto analizzare meglio il mio nemico interno, che, invece, ho proiettato fuori; quindi, ho incontrato e ingenuamente aiutato anche persone che non lo meritavano, di cui avrei dovuto fare a meno, su cui non avrei dovuto investire. Le ho incontrate, però, perché mi occorreva rivalutare, rifare un determinato processo. E non ho attribuito a loro, ai miei nemici, la mancanza, loro sono loro, e se la vedranno col loro inconscio; per quel che mi riguarda, sono andata a scuola da molti dei miei nemici, e elaborare il lutto per questa cosa significa elaborare il lutto per parti non risolte di me.

Come si passa dall’ingratitudine all’invidia?

L’invidia è molto affine all’ingratitudine. Infatti il mio primo libro si chiama Ingrati, la sindrome Rancorosa del beneficato, il secondo si chiama Invidiosi, la Sindrome di Caino o della Fotocopia. Sono sentimenti integrati, nel senso che è chiaro che la persona che ti chiede aiuto pensa che tu abbia la possibilità di darglielo, e nella grande maggioranza dei casi glielo dai. A livello profondo, però, l’ingrato è invidioso di quello che tu puoi fare e che lui non può fare per sé, mentre la persona grata trasforma l’invidia per quello che l’altro ha e può fare, in ammirazione. Personalmente, di fronte a chi sa fare o può dare, in me scatta subito l’ammirazione.

È anche un incentivo, è motivante.

Sì, non è solo un incentivo, ma un modello un riferimento. Se io vedo qualcosa di bello, mi si mette in moto un processo di ammirazione. L’altro è l’altro, e mi piace osservarlo; allo stesso modo, altre volte mi trovo in difficoltà e in imbarazzo con chi, evidentemente, non può, non ha risorse. Quindi, semmai, il meccanismo dell’invidia può essere riciclato quando la si trasforma in ammirazione, entrando nell’ottica di ammirare quello che una persona può fare. Se, invece, invidio quello che tu puoi fare e io non posso fare, il risultato finale è che o ti imito, tante volte maldestramente, o ti denigro per sminuire questo potere che tu hai rispetto all’impotenza che io sento. Questo è il gioco dell’invidioso. Nella trilogia dei libri che sto scrivendo, il terzo tratta degli ipocriti, la vera e propria sindrome del fariseo.
Il processo ingratitudine-invidia è intimamente legato, sono interconnesse. Ipocritamente, io vorrei apparire quello che in realtà poi non sono, e mi mostro in una data maniera, oppure aderisco a modelli che poi alla fine non so attuare, però ipocritamente li porto avanti, perché sono un moralista. L’ipocrita è un po’ il seguito della fotocopia. È veramente il traditore per eccellenza. Io temo chi loda ad oltranza proprio come temo quelli che dicono sempre male degli altri, perché, prima o poi, sarò anch’io oggetto di questo malanimo. L’ipocrita all’inizio ti loda, poi però ha bisogno di distruggerti perché non puoi contare sul fatto che ti abbia detto la verità. Ti dice quello che gli serve per raggiungere un obiettivo, per ottenere un’attenzione, un consenso, ma poi non c’è un momento in cui sei tu apoter avere bisogno di qualcosa. Non puoi contarci. L’invito è contare su se stessi, sempre di più, e lavorare sulla propria gratitudine.
Si incontrano e frequentano persone che poi ci fanno del male perché ci sono parti di noi che non abbiamo elaborato bene.  Alcune esperienze veramente brutte e dolorose a me hanno insegnato proprio questo, che anche io ho dato spazio a certe situazioni. Questo vuol dire che bisogna lavorare su se stessi, perché non si può contare su quello che può fare o non fare l’altro. A me importa del perché mi trovo in questa situazione, quindi invito sempre a guardare il proprio cinquanta per cento di responsabilità.

Mi ha colpito molto, tra le fattispecie di beneficati rancorosi, chi vorrebbe istruire il benefattore. Qui lo scambio non è disinteressato, ma manipolatorio.

Il genere so io come si fa. Il problema non è io sono meglio di te. Il punto è io mi conosco, e se mi conosco bene, e tu ti conosci molto poco o non ti conosci per niente, sei effettivamente un nemico grave che non riesco a combattere se non ho già combattuto quelle parti nemiche che tu rappresenti. Come diceva il mio grande Professor Di Giulio, il problema è il nemico interno. Quando noi lo conosciamo, il cambiamento è possibile.

Rinnegare per non sentirsi in debito, ricercare giustificazioni al proprio risentimento, riscrivere la realtà in modo più conforme alle proprie fragilità. Manifestare comportamenti deliranti, che sostituiscono una giusta gratitudine a un assurdo avanzamento di pretese. Dimostrare invidia, impotenza e frustrazione dinanzi al bene ricevuto, il quale minaccia l’autostima del beneficato rancoroso. Sono questi i segnali a cui prestare attenzione.
Il destino degli ingrati non può che essere l’oblio. Gli altri, invece, rimangano grati di tutto, anche delle lezioni che la vita impartisce. Le persone felici fanno così.

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