La primaria Paola Caporaletti in prima linea al Pronto Soccorso: “Questo clima di solidarietà e rispetto non durerà a lungo”

by Daniela Tonti

Paola Caporaletti è la primaria del Pronto Soccorso degli Ospedali Riuniti di Foggia.

Noi di bonculture l’abbiamo incontrata per farci raccontare come è cambiato l’accesso al Policlinico, cosa vuol dire essere donna e medico sulla prima linea nell’emergenza, dove i livelli di conflittualità degenerano spesso in forme di violenza fisica e verbale e cosa vuol dire dare una risposta in termini di richiesta di salute a un bacino di utenza così enorme come quello della provincia di Foggia.

Dottoressa, si parla spesso di abuso del Pronto Soccorso, di un numero eccessivo di accessi per questioni di salute risolvibili sulla territorialità. E in era pre-covid era facilmente riscontrabile. D’altra parte più aumenta l’utenza più aumenta il livello di aggressività, verbale, del giorno dopo sui social, molto spesso da parte di chi non ci dovrebbe nemmeno stare in un pronto soccorso.

Quanto è difficile?

Il Pronto Soccorso è un posto a cui si rivolgono tutti i cittadini non solo per un  problema sanitario, ma anche per problematiche non appartenenti all’emergenza quali quelle di tipo sociale o di tipo organizzativo sanitario. Ci si rivolge al Pronto Soccorso per aggirare  le lunghe liste d’attesa delle visite ambulatoriali o per un problema di emergenza soggettiva o per  ansia,  paura di avere qualche malattia E poi ci sono le patologie che hanno necessità di una valutazione e trattamento in tempi rapidi  con ricovero o in emergenza urgenza, i codici rossi.

Tutto questo io lo chiamo “bisogno di salute”: con questo termine intendo tutte le necessità sanitarie dei cittadini, soggettive ed  oggettive e, a volte, anche sociali, perché il pronto soccorso è una casa sempre aperta, che accoglie tutti senza differenza di età, sesso o ceto sociale 24 ore al giorno tutti i giorni dell’anno.

E si riesce a rispondere a questo bisogno di salute?

A questo bisogno di salute è sempre stata data dal pronto soccorso una risposta egregia. C’è una domanda che è enorme, a cui tuttavia si è sempre fatto fronte.

Certo, ci sono tante difficoltà,  spesso lunghe attese per i codici minori, che  sono quei codici che avrebbero dovuto attendere giorni o settimane per avere una visita ambulatoriale Poi accade che qualcuno abbia usato il pronto soccorso come by-pass per le liste d’attesa e ottenere le visite specialistiche ambulatoriali velocemente o perché magari oggettivamente c’erano dei tempi lunghi o semplicemente perché era più comodo venire in pronto soccorso.

Fino a un paio di anni fa una grossa fetta di pazienti senza problemi di emergenza  intasava il pronto soccorso con lavoro ambulatoriale aggiunto e conflittualità con i medici altissima:  c’era da parte dei pazienti l’attesa di una risposta che non veniva esaudita in tempi brevi o nella modalità richiesta perché prevista in altri ambiti del nostro Sistema Sanitario ( ambulatori sul territorio ad esempio) e da parte del medico il carico alto di lavoro e la necessità di dare priorità a coloro che presentavano patologie più gravi.

La conflittualità inoltre si crea  spesso con coloro che hanno problemi minori, quelle che meno necessitano del sistema di emergenza ed  hanno le maggiori pretese.

E da un paio d’anni?

Da un paio di anni a questa parte si è assistito a una riduzione dei codici verdi e bianchi e un aumento importante dei codici gialli. Questo aumento è legato a tanti aspetti, dall’aumento della vita media, all’aumento di persone con più patologie  importanti, alla carenza di assistenza domiciliare sul territorio rispetto alle necessità ed alla riduzione del  supporto della famiglia. Sono aumentati i codici gialli da un punto di vista numerico ma anche è aumentata la permanenza dei pazienti in pronto soccorso, perché a fronte di questa modifica della popolazione abbiamo avuto un cambiamento del sistema sanitario con una notevole contrazione dei posti letto non supportata da un adeguato sviluppo territoriale con strutture di lungodegenza ad esempio.

Non si lavorerebbe meglio con un solo canale rosso? Perché se è vero che i codici rossi passano avanti è pur vero che psicologicamente il livello di carico di lavoro incide sugli operatori.

No, il sistema deve funzionare con più canali. Perché il pronto soccorso è la porta d’ingresso dell’ospedale, il luogo dove entrano le persone con i sintomi più diversi. Inoltre la medicina non è una scienza esatta, nel senso che ad un sintomo  non necessariamente e sempre corrisponde una determinata patologia . Ci sono delle situazioni per esempio che possono sembrare semplici all’inizio e poi avere una evolutività rapida o altre la cui presentazione può essere subdola e non apparire subito così palesemente grave ed avere  necessità di essere studiate.

Quanto è difficile essere donna e essere sull’emergenza dove i livelli di aggressività anche verbale spesso trascendono tutti i limiti della decenza?

L’essere donna non è semplice. Nonostante vi sia stata una inversione della percentuale dei medici donna rispetto agli uomini in confronto a quando io mi sono iscritta all’università per esempio, esiste ancora una differenza tra il medico uomo e il medico donna. Nell’ambito della conflittualità verbale è molto frequente essere aggredite in quanto donne, ma anche qui distinguerei tra prima di febbraio 2020 e dopo febbraio 2020.

Cioè?

Prima di febbraio la conflittualità era fortissima e nasceva dalla completa incongruenza tra richiesta del cittadino e risposta del sistema sanitario, in particolar modo in quelle situazioni in cui la richiesta era difficilmente soddisfacibile . La richiesta di vedere risolti immediatamente i propri problemi era spesso proposta con arroganza, con uno svilimento del ruolo del medico, con un abuso del pronto soccorso legato alla facilità di accesso, che però per me è giusto che ci sia. Io credo molto nel fatto che la nostra sia una sanità invidiabile e l’aggressività che si manifesta nei rapporti tra medici e pazienti è in parte dovuta al maluso, all’abuso del sistema, alla cattiva educazione ed a tutte le campagne contro i medici.

C’è qualcosa che l’ha colpita in particolare?

Io sono qui da un anno, dal 16 marzo del 2019. Le prime volte ricordo che venivo a piedi dalla stazione anche per conoscere la città e mi colpì all’ingresso su Viale Pinto – all’epoca ancora aperto alle automobili – un cartello su cui c’era una pubblicità che propagandava  la possibilità di supporto legale gratuito per casi di malasanità.

Cosa vuol dire per un medico essere accolto da una pubblicità di quel tipo all’ingresso del posto di lavoro?

Era veramente triste. Arrivare sul posto di lavoro e sentirsi attaccato e minacciato non è piacevole, in particolare quando poi hai un mestiere in cui  devi dare, devi prenderti cura degli altri. In questo lavoro ricevi anche da tutti i pazienti, ma ci deve essere serenità perché lo scambio abbia l’intensità e sia proficuo. Riceviamo tanto dai pazienti quando il rapporto  è un rapporto medico paziente,di fiducia, di stima e rispetto. Quando questo è alterato dalla conflittualità, dalla pretesa, dalla voglia di rivalsa, subentra la paura e la chiusura. Nel mio lavoro devi  lasciare dietro le spalle i tuoi problemi o la tua vita privata  per poter essere disponibile ad aiutare, a prenderti cura, ad ascoltare ed il trovare sulla soglia  un cartello che inneggia alla conflittualità era una veramente una pessima sensazione.

Ora fortunatamente non c’è più.

(sorride) Si non c’è più. Poi è stato chiuso Viale Pinto e il cartello è stato rimosso.

E nell’era covid?

All’inizio il pronto soccorso ha rivoluzionato se stesso in otto ore: la fortuna di questo ospedale è stata quella di guardare oltre, di ispirarsi a quella che era l’esperienza dei centri del Nord in un contesto in cui gli scenari cambiano in continuazione. Ho redatto la disposizione di un primo percorso COVID il 30 gennaio, quando non c’era nemmeno un caso e la lungimiranza c’è stata. Dopo il primo caso grave – parlo del paziente proveniente dall’RSA di Rodi – noi abbiamo nuovamente riorganizzato il Pronto Soccorso in una notte di sabato per adeguarlo alle nuove esigenze.. Chiudemmo la Medicina d’Urgenza e Terapia Semintensiva dove   avevamo 14 pazienti ricoverati e li spostammo con il coordinamento della Direzione Sanitaria in vari reparti, creando il doppio percorso, “sporco” e “pulito”.  E già quella notte ci fu l’ingresso di due pazienti covid. Da allora è stato un cambiamento costante, sempre per adeguarci alle nuove necessità.

Bene, in quei giorni i tifosi del Foggia lasciarono uno striscione di ringraziamento e vicinanza di fronte al Pronto Soccorso. E io ho fatto questa considerazione: all’inizio giungevo al lavoro con quell’invito alla conflittualità,  adesso ci veniva riconosciuto l’ “onore” di un lavoro rischioso, fondamentale e di pubblica utilità.

Cosa ha provato quando ha visto quello striscione?

Ho provato due sensazioni contrastanti. Una è la soddisfazione di vedere il ritorno ad una situazione di dialogo e non di contrapposizione tra cittadini operatori sanitari e cittadini pazienti. La seconda è la tristezza che sia stata una pandemia a determinare questo cambiamento. E poi profondamene c’è l’amarezza, perché io sono consapevole che questo clima di solidarietà e rispetto non durerà a lungo. Perché è un cambiamento troppo repentino, che non è entrato nell’educazione, nella testa, nelle emozioni delle persone in maniera adeguata e pertanto così come è venuto se ne andrà.

Personalmente sono stata offesa tante volte ed anche aggredita fisicamente

Anche fisicamente?

Si fisicamente mi è successo in provincia di Bari, ma anche a Foggia l’aggressione verbale è continua. Veramente quotidiana. E spesso ti chiedi che mestiere fai o per quale motivo devi  essere insultata, quando nessuno di noi vuole venire a lavorare ed essere offeso. La consapevolezza amara è che questa situazione non è entrata nell’educazione sanitaria e nella consapevolezza dei cittadini.

Dottoressa lei sembra essere convinta che le cose torneranno come prima. Come mai?

L’altro giorno una persona entrata in pronto soccorso era distesa sul lettino e nel mentre si lavorava in area no covid con altre due emergenze oltre lei, continuava a urlarmi addosso “io vi denuncio tutti quanti e vi faccio passare i guai”. Mi creda è difficile. È veramente difficile.

Perché la tentazione è di dire se io non ti servo…

Curati da solo sei capace?

Anche. Questo punto a cui siamo arrivati è una mala crescita.

Per la sfiducia?

Anche. Non c’è più rispetto.  Se vado da un meccanico per la mia automobile, ben sapendo che non sono meccanico, espongo il problema e mi affido. Qui invece si viene già convinti della propria diagnosi, magari si sono raccolte informazioni da internet e se tu invece dai una interpretazione da professionista diversa, puoi anche venire  aggredito o  a volte ti si chiede di dimostrare le tue diagnosi senza alcuna fiducia nella professionalità e competenza.

C’è qualcosa che la sua categoria poteva fare e non ha fatto nel corso degli anni per modificare questa tendenza, per incidere anche nei meccanismi di comunicazione e di sostegno di un certo tipo di narrazione? Perché gli spazi del racconto sono occupati tutti solo e soltanto dagli inviti alla conflittualità come li definisce lei o dalle invettive unidirezionali di utenti che hanno comunque una visuale parziale, falsata dalle proprie convinzioni, peraltro spesso prive di fondamento? Perché gli spazi notiziabili sono riempiti tutti da offese, lamentele, chiacchiericcio anonimo?

Voi non avreste potuto tutelarvi di più?

C’è stato un loop, nel momento in cui per un’estrema protezione delle persone malate è stato possibile intentare la causa a costo zero. È stato un errore fondamentale: vincendo la causa si guadagnava, mentre perdendo non si sarebbe perso nulla, perché non era previsto neanche il pagamento delle spese processuali. In realtà non è vero che non si sarebbe perso niente. Quando un medico viene coinvolto in un procedimento penale anche se in maniera infondata,  vive delle situazioni psicologiche dure e mortificanti e, in particolare quando le cause durano anni, si perde una parte della professionalità, della serenità di quel medico.  E questo certo non è “niente”. È stato un errore gravissimo, a fronte della giusta e corretta protezione che deve essere data a chi viene curato.

L’errore esiste, può essere umano, organizzativo, strumentale ed  il risk management esiste per questo. A fronte della conoscenza delle dinamiche della possibilità dell’errore, non è passato il messaggio che l’errore medico non è detto sia colpa medica, che ci sono patologie che non possiamo curare, che ci sono delle forme che hanno una presentazione così atipica e subdola e così difficili da trovare con gli esami strumentali che puoi non riuscire ad arrivare alla diagnosi e poi che  esiste un fine vita.

C’è anche una sorta di non accettazione dell’irreversibilità di certe patologie o di presunzione di immortalità negli approcci? Perché se uno muore è colpa del medico che non è stato capace?

Io ricordo a distanza di tanti anni quando uscii dalla Sala Rossa per parlare con la figlia di una signora di 104 anni che stava male. Le spiegai che la situazione era grave e stavamo facendo il possibile per vedere se ci fosse margine di recupero e le illustrai che  da quello che vedevo non avevamo questo margine. La figlia mi chiese allora per quale motivo la madre non avrebbe avuto margine di recupero. Questa cosa mi colpì molto. Cercai allora con calma di spiegare che gli organi avevano 104 anni, che esiste un invecchiamento del corpo e la figlia allora mi chiese come mai. Come mai. Ancora penso a distanza di anni a questo come mai. Era ovvio che mi trovassi davanti  una persona preoccupata , che non sapeva nulla di medicina, non mi conosceva, che era sulla difensiva e  voleva rifiutare qualsiasi cosa io stessi dicendo e quindi io cercassi il migliore approccio possibile. Ma quel come mai mi fece riflettere a lungo.

La realtà è che io l’immortalità alla sua mamma non avevo il potere di darla, eppure questa persona pensava che fosse un mio potere. È chiaro che a questo punto esiste una forte conflittualità.

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