La prof Maria Chironna, due anni di pandemia e le attuali varianti di preoccupazione

by Michela Conoscitore

In due anni di pandemia, eravamo convinti di saper prevedere il virus Covid-19, e controllare di conseguenza le varianti che dal 2020 si sono avvicendate nell’evoluzione del patogeno. Poi, un mese fa, la recrudescenza dei contagi ha spazzato le poche sicurezze in merito: la diffusione di Omicron 4 e 5 che ha raggiunto un livello preoccupante, gli ospedali nuovamente in affanno e la popolazione che aveva da poco riposto in un cassetto le mascherine, in estate, periodo che abbiamo imparato a ritenere sicuro per quanto riguarda la pericolosità del virus, si è trovata a doversi proteggere nuovamente da un ‘nemico’ che si fatica a debellare.

Ora che la situazione è tornata sotto controllo, quel che preoccupa è l’arrivo dell’autunno e le incognite che porta con sé: ci saranno nuove e pericolose varianti? Quando sarebbe opportuno procedere con la quarta dose? Le mascherine sono da accantonare?

bonculture ha posto questi interrogativi alla virologa Maria Chironna, professoressa di Igiene dell’Università di Bari e coordinatrice della rete regionale dei laboratori SARS-CoV-2, con cui abbiamo parlato anche della diffusione del vaiolo delle scimmie:

Professoressa Chironna, quel che ci ha colto impreparati è stata la recrudescenza del virus, nelle scorse settimane, alle porte dell’estate. Era prevedibile ed evitabile questo scenario?

Le pandemie sappiamo che non finiscono così presto. In genere, si succedono ondate epidemiche di minore entità, la popolazione si immunizza e l’impatto diviene, via via, meno rilevante. Ma già da fine 2020 abbiamo compreso che le cose non sarebbero andate così. È arrivata l’incognita “varianti del virus”. Varianti che si sono succedute nei mesi e che hanno generato nuove ondate epidemiche. E ogni volta che qualcuno ipotizzava che non potesse più affacciarsi nessuna altra variante più contagiosa o in grado di evadere la risposta immunitaria, poi è accaduto. I segnali c’erano. Venivano da altri paesi del mondo dove prima di noi stavano sperimentando un aumento di casi legato al prevalere di queste varianti. Perciò, anche se un’altra ondata epidemica era inattesa nel periodo estivo, in Sud Africa erano emerse già a maggio le varianti Omicron BA.4 e BA.5 e molti scienziati avevano comunicato il rischio che in breve tempo avrebbero fatto il giro del mondo. Si sapeva dell’ondata epidemica in arrivo. Avevamo solo qualche mese di vantaggio. Ma ormai le restrizioni erano cadute ed è stato deciso di non tornare indietro. Sì è deciso di affrontare la gestione dell’emergenza solo sul piano clinico. Purtroppo, però, l’ondata epidemica imponente ha avuto ripercussioni di nuovo sul piano dell’assistenza sanitaria e non solo.

Pensando all’autunno in arrivo, cosa dobbiamo aspettarci? Nuove varianti magari più infettive?

Esiste un monitoraggio delle varianti a livello internazionale e nazionale per individuare le cosiddette “varianti di preoccupazione”. Al momento sono sotto osservazione alcune sotto varianti di Omicron che potrebbero rivelarsi più contagiose, ma non possiamo ancora fare previsioni attendibili sul loro possibile impatto. Il punto è che potremmo perdere il polso della situazione, a causa di una gestione diffusa delle diagnosi coi test rapidi antigenici (spesso neanche registrati), e senza la possibilità di monitorare attentamente la diffusione delle varianti con i test molecolari che consentono, invece, il sequenziamento e l’individuazione delle mutazioni. I campioni per fare l’antigenico vengono buttati, e quindi i test molecolari non vengono fatti su un campione numericamente adeguato di positivi. Potremmo non essere più in grado di intercettare tempestivamente le varianti, se non verranno date indicazioni puntuali su tale aspetto cruciale. In autunno, quindi, non solo potremmo avere una recrudescenza di casi legata anche ad un aumento delle reinfezioni, ma c’è l’incognita rappresenta dalle sotto varianti di Omicron che potrebbero emergere. Una su tutte, la Omicron BA.2.75. Cosa accadrà poi in autunno dipenderà, inoltre, da altre misure che dovrebbero essere introdotte: adeguata ventilazione di ambienti indoor (scuole, luoghi di lavoro, ecc.), sicurezza sui mezzi di trasporto pubblici, richiami vaccinali e cure adeguate e tempestive.

Rispetto a due anni fa, ad inizio pandemia, cosa sappiamo in più sul virus da Covid?

Sappiamo molte cose. Che è un virus molto più contagioso di quello inizialmente isolato a Wuhan, a causa dell’affermarsi delle varianti. Che si trasmette per via aerea molto facilmente e non, come si diceva all’inizio, mediante “contatti stretti”. Che, purtroppo, dà una malattia non solo respiratoria ma anche sistemica. Il virus può colpire altri organi e dare anche sequele rilevanti. Che, al contrario dei tipici virus respiratori, può causare il Long Covid in alcune persone. Che ci sono farmaci che, se usati tempestivamente, possono favorire un decorso clinico più benigno nei soggetti più fragili: bisogna facilitare l’accesso a queste terapie. Che fare la quarta dose aiuta ad evitare ospedalizzazioni e decessi nei soggetti più a rischio, anche se il vaccino non è aggiornato. Che conosciamo bene le misure di prevenzione che funzionano sul campo per evitare ondate epidemiche, a patto che vengano utilizzate al primo accenno di recrudescenza, guardando costantemente il quadro epidemiologico.

Rispetto ai vaccini, qual è il suo parere sulle tempistiche della quarta dose?

La decisione della quarta dose (seconda dose booster) è arrivata forse tardi, e non accompagnata da una adeguata campagna di informazione. Motivo per cui le coperture non decollano. È questione di fiducia. Eppure, è opportuno farla adesso per essere preparati proprio in vista della stagione autunno-invernale. Per molti soggetti è passato molto tempo dalla terza dose. Poiché l’immunità tende a decrescere con il passare dei mesi, fare una dose di richiamo ripristina l’immunità ed aiuta ad affrontare più serenamente il prossimo futuro.

Le mascherine, complice il caldo e provvedimenti che ne hanno fatto decadere l’obbligo, sono sempre meno utilizzate dalla popolazione. Cosa si sente di dire in merito?

È indubbio che le mascherine siano un presidio “fastidioso”. Soprattutto le Ffp2, in estate, sono davvero difficili da indossare a lungo. Ma è l’unico modo per proteggerci dall’infezione, in presenza di varianti così contagiose. L’uso in ambienti chiusi e affollati, quando non può essere garantito il ricambio d’aria e il distanziamento, è l’unico modo per poter frequentare quei luoghi tenendo al contempo basso il rischio. Questo bisogna dirlo chiaramente. Altro che buttarle via. Abbiamo evidenze che dimostrano il loro imprescindibile supporto, e dobbiamo tenerle a portata di mano. Semmai, va indicato un uso corretto e improntato al buon senso. Si va da un eccesso ad un altro. Si vede in giro qualcuno indossare le Ffp2 all’aperto con 40 gradi, quando è inutile, e nessuno, invece, che le indossi in luoghi chiusi e affollati dove magari c’è anche aria condizionata che le rende più sopportabili o partecipando ad eventi con persone ammassate. Così si fa il gioco del virus.

Col Covid, il virus che sta preoccupando l’OMS è il vaiolo delle scimmie. Negli USA hanno dichiarato lo stato di emergenza con seimila casi accertati, in Italia si parla di possibili quarantene e vaccini. Qual è il suo parere? Bisogna essere cauti?

Il vaiolo delle scimmie nell’uomo (Monkeypox) è stata dichiarata un’emergenza internazionale dall’OMS. L’allerta globale è un invito a tutti i paesi del mondo, soprattutto i più colpiti, ad agire tempestivamente e a mettere in campo politiche sanitarie finalizzate al contenimento e, possibilmente, al controllo. Si riconosce a questa malattia un potenziale di diffusione che impone una certa attenzione. In Italia, ad ora, si registrano oltre 550 casi, con alcune regioni più colpite. La maggior parte dei casi ha contratto l’infezione per via sessuale (si tratta prevalentemente di maschi che hanno rapporti sessuali con maschi). Fortunatamente è una malattia con un decorso benigno, motivo per cui c’è attenzione ma non allarme. Isolare i casi e prevedere la quarantena dei contatti stretti, in questa fase, potrebbe essere utile a limitare i contagi. I vaccini saranno disponibili solo per pochi soggetti a più alto rischio. È necessario monitorare attentamente cosa accadrà nelle prossime settimane. L’auspicio è che non si diffonda, in futuro, nella popolazione generale. Prima di tutto, però, è ora di cominciare a parlarne, senza stigmatizzare nessuno e senza sottovalutazioni. Abbiamo imparato dalla pandemia Covid19 che non sottovalutare e agire tempestivamente può fare la differenza.

Prof.ssa Chironna riflettendo sulla pandemia, recentemente, in un suo pensiero sui social ha parlato di coraggio nel comunicare l’incertezza. Cosa intende?

Quando una nuova emergenza sanitaria mondiale come la pandemia di Covid19 si innesca, per ragioni complesse legate anche a rapporti ospite-virus, animali, ambiente, suscettibilità della popolazione, la comunicazione è parte importante della gestione dell’emergenza stessa. All’inizio della pandemia tutta la popolazione ha seguito le indicazioni (lockdown, mascherine e distanziamento), per paura certo, ma anche perché aveva fiducia nelle autorità sanitarie e nella scienza che, sulla base delle evidenze del momento e di esperienze pregresse, ritenevano che quelle fossero le misure più adeguate a contenere la diffusione del virus. E tutto è andato bene. Poi alcuni “esperti” hanno cominciato a fare previsioni sulla pandemia che si sono rivelate errate, poiché non basate su evidenze scientifiche, e ciò ha cominciato a creare un po’ di disorientamento nella popolazione. Ricordiamo che alcuni “esperti” avevano dichiarato la pandemia conclusa già l’estate 2020. Il famoso “il virus è clinicamente morto”. Salvo poi vedere com’è andata. Comunicare l’incertezza vuol dire anche dire molti “non lo sappiamo” o “non lo sappiamo ancora”. La trasparenza è la base di una comunicazione scientifica non solo onesta e rigorosa, ma del rapporto di fiducia con la popolazione. Altro esempio è rappresentato dalla vaccinazione. Quando sono arrivati i vaccini, i primi studi avevano dimostrato che erano altamente efficaci anche contro le infezioni. Poi si è chiarito meglio, col tempo, che proteggono contro le forme severe di malattia ma non contro le infezioni. Se la comunicazione fosse stata meno trionfalistica e più prudente, le persone non avrebbero abbassato la guardia, buttando via le mascherine o non sarebbero diventate insofferenti verso le restrizioni. Non si sarebbero irritate di fronte a infezioni, pur da vaccinati, da varianti impreviste compromettendo la fiducia nei confronti del presidio più importante di prevenzione che abbiamo. E poi nella scienza non è tutto bianco o nero. Per questo comunicare anche l’incertezza aiuta a mantenere alta la fiducia nella scienza.

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