Lucilla, in prima linea contro il covid: «Ci siamo sentiti traditi. I nostri sforzi non hanno visto una controparte di responsabilità».

by Michela Conoscitore

Il Policlinico di Bari “Giovanni XXIII” in questi mesi sta narrando su Instagram la pandemia da Covid-19, raccontandola attraverso le varie storie che animano il nosocomio barese, per sensibilizzare l’opinione pubblica su quel che accade ogni giorno in ospedale. Se fuori si sta provando, nonostante la pandemia sia ancora in corso, a tornare alla normalità, nelle corsie degli ospedali si lotta ancora strenuamente la malattia che ha fatto la sua comparsa ormai circa un anno fa. La normalità è un concetto, come la direzione da dare alle vite di tutti noi del resto, che dobbiamo essere capaci, almeno per il momento, di adeguare alla situazione che stiamo fronteggiando.

Una delle voci più forti di questo racconto crudo e toccante della pandemia è stata quella della dottoressa Lucilla Crudele, specializzanda in medicina d’urgenza e medico del Pronto Soccorso, che con parole essenziali ma funzionali ha provato a far riflettere su comportamenti insensati che, sicuramente, non aiutano chi come lei lavora duramente e con abnegazione affinchè questa pandemia non l’abbia vinta.

bonculture l’ha intervistata.

I figli terrorizzati. Le mamme positive in ospedale con i bambini a casa. I ricoverati a cui nessuno può portare i cambi della biancheria perché tutta la famiglia è in quarantena. E le ho ascoltate le videochiamate che abbiamo ricominciato a fare. Li ho visti e fuori fa ancora caldo, possiamo far cambiare aria alle stanze e prendere il caffè all’aperto. Cosa sarà di noi fra 15 giorni?”, questo è lo stralcio di un suo post pubblicato su Facebook, datato 25 ottobre, che ha ricevuto molta risonanza tanto da essere pubblicato anche su La Repubblica e Il Mattino. Dottoressa Crudele, nella seconda ondata quanto vi siete sentiti abbandonati voi medici, intendo dalle istituzioni e dalla gente comune, dopo le celebrazioni e il supporto incondizionati ricevuti durante la prima?

Più che abbandonati, ci siamo sentiti traditi. I nostri sforzi della prima ondata e quelli della seconda non hanno visto nei “laici” una controparte di responsabilità. Mentre noi non ci siamo mai fermati, neanche in estate, c’è chi ha messo a repentaglio la propria sicurezza e la salute dei più fragili per rincorrere il divertimento e la spensieratezza. Il peggio è che c’è chi l’ha consentito.

Sono trascorsi quasi due mesi da quel suo post, sente di confermare le stesse impressioni o qualcosa è cambiato, pensando anche ai provvedimenti del Governo?

Non è cambiato molto, continuiamo a vedere scene di assembramenti. Nessuno commette alcun reato, perché è tutto consentito. Ma essere comunità vuol dire prendersi cura degli altri anche con le proprie scelte, non solo con il rispetto delle regole imposte dall’alto.

Lei è diventata anche uno dei volti nel diario social del Policlinico di Bari “Giovanni XXIII” su Instagram, e le sue foto sono corredate da altre precisazioni su voi medici in prima linea: non siete dei bugiardi, ha affermato. Secondo lei perché con la ripresa del contagio, di contro è aumentata anche l’incredulità verso il virus?

Molti hanno contrapposto le misure anti-contagio alle misure per la ripresa economica; dunque per incoraggiare i consumi e aiutare molti piccoli e medi imprenditori qualcuno ha cercato di stemperare i toni e rappresentare una realtà meno dura di quella che vediamo negli ospedali. Ovviamente notizie così contrastanti hanno portato i cittadini meno informati a scegliere l’opzione più rassicurante. Forse anche come forma di difesa dalla paura, molti stanno sminuendo i rischi di contagio e degli effetti che la malattia ha sui pazienti. Devo dire però che almeno nella mia esperienza, di tutti i pazienti che ho incontrato nessuno ha avuto un atteggiamento diffidente rispetto al fatto che le nostre cure fossero appropriate per la loro condizione.

Ad oggi, con la terza ondata che incombe, qual è la situazione dei malati Covid al Policlinico di Bari e specificatamente nel Pronto Soccorso dove lei presta servizio?

Stiamo assistendo a una lievissima riduzione degli accessi in area “grigia”, ovvero quella dedicata ai casi di pazienti Covid sospetti e accertati, mentre aumentano i pazienti gravi negativi: oncologici, cardiopatici, anziani che hanno infezioni diverse dal Covid. Per questi ultimi ci sono sempre meno posti nei reparti del Policlinico e questo ci porta a lavorare sotto pressione in tutte le aree del Pronto Soccorso.

Cosa vuol dire essere donna e lavorare in uno dei reparti più esposti nell’emergenza Covid, dove si prestano le prime cure ai malati in ospedale?

Non credo che la differenza di genere conti più di tanto. Credo piuttosto che serva sangue freddo e molta pazienza per affrontare tante emergenze in poco tempo e in poco spazio, riuscendo a collaborare con un team di infermieri e operatori sanitari che cambiano ad ogni turno, per di più bardati in tute e maschere che non fanno respirare. Il fastidio fisico, l’impossibilità di andare in bagno o di bere per tutto il turno sono costanti ma sono così concentrata sui pazienti da non farci più caso. Il pronto soccorso ti insegna a far lavorare la mente velocemente mentre il corpo sta facendo altro. Forse l’essere multitasking, più tipico delle donne, è il valore aggiunto.

Dottoressa, come vi state preparando alla terza ondata al Policlinico?

Con le stesse risorse della prima e della seconda, gli stessi soldati e le stesse armi. Spero che la logistica dei reparti Covid sia perfezionata e soprattutto che non ci si dimentichi di tutti gli altri pazienti che continuano a chiedere assistenza e cure. La mancanza dei follow-up, la difficoltà a farsi visitare sul territorio, la solitudine e la paura di contagiarsi in ospedale, portano i pazienti a rivolgersi al Pronto Soccorso solo quando versano in condizioni gravi e sono dunque meritevoli di ricovero. E per loro c’è poco posto, visto che molti reparti sono stati convertiti a Covid e che continueranno ad essere pieni se non calano i contagi.

Col vaccino, probabilmente in arrivo, lei come pensa evolverà la pandemia e come la gente comune dovrà porsi nel fronteggiarla?

Spero che tutti scelgano di vaccinarsi. Per proteggere sé stessi e chi non potrà effettuare il vaccino perché controindicato. E poi spero che sia veramente possibile vaccinare tutti senza i problemi logistici che sono stati riscontrati nella vaccinazione anti-influenzale. Deve però essere chiaro che per vaccinare tutti ci vorranno mesi e in quei mesi dovremo stare ancora più attenti, la contagiosità sarà ancora elevata. Stiamo andando incontro ai mesi tipici della massima diffusione dei virus respiratori, rischiamo che al coronavirus si sommino le infezioni tipiche dell’inverno.

Come ha affermato lei prima, quel che sicuramente non deve mancare nel suo lavoro in reparto sono tempra e nervi saldi, ma c’è stato un momento in cui ha vacillato o ha avuto paura, per sé e per la salute dei suoi cari? Ce lo può raccontare?

Ho avuto paura per me stessa solo nel primo mese di lavoro con i pazienti positivi, poi ho visto che con le opportune precauzioni e i Dpi corretti non c’era rischio di contagio e infatti sono risultata negativa ai tamponi di screening a cui siamo sottoposti. Nello stesso periodo, in pieno lockdown, ho avuto paura per i miei cari che vivono in un’altra città e soprattutto nelle prime fasi non hanno avuto facile accesso alle mascherine o ai guanti necessari semplicemente per andare a fare la spesa. Ricordo ancora di avergliene mandati per posta da Bari, perché io non potevo raggiungerli di persona per portarglieli. Sono state esperienze dure ma che mi hanno reso più forte e più autonoma.

Photocredit: Christian Mantuano

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.