Pandemia e hikikomori: l’isolamento giovanile come unica via per superare le «eccessive pressioni di realizzazione sociale della società capitalistica»

by Gabriele Rana

Andrea (nome di fantasia) è un ragazzo di quasi sedici anni: da diversi mesi non esce dalla sua cameretta se non quando è strettamente necessario. Chi legge potrebbe pensare che questa sia una cosa normale nell’ultimo periodo, anzi sia salutare e opportuna data la pandemia. Questa storia, però, è completamente diversa: non stiamo parlando di un isolamento obbligato, ma di un ritiro sociale volontario.

In effetti Andrea, fin dalla più tenera età, pur mantenendo rapporti limitati, aveva sempre dimostrato una certa tensione che lo portava a distaccarsi dagli altri bambini. I genitori, preoccupati, si erano rivolti ad alcuni specialisti per capire se si trattasse un disturbo dello spettro dell’autismo, ma una diagnosi di questo tipo non è mai stata fatta. Come nel dilemma del porcospino, che nonostante il freddo si isola dagli altri della sua specie perché ha paura di ferire e di essere ferito, allo stesso modo Andrea preferisce rimanere da solo. Eppure, agli occhi delle persone che gli stanno accanto, sembra un ragazzo che si potrebbe ritenere nella norma: bello, bravo a scuola e con una passione per la chitarra e per i videogiochi.

La maggior parte dei ragazzi ha vissuto il lockdown dello scorso anno come una vicenda stressante e vissuta nell’attesa di un ritorno alla normalità: Andrea non era tra questi, viveva quel momento come una situazione a suo favore.

Poteva passare le giornate giocando alla play e suonando la chitarra, senza essere obbligato a uscire di casa e restando in quelle sue piccole zone di comfort: era felice. I genitori però notavano che il suo progressivo isolamento era diverso da quello degli altri: non parlava più neanche in chiamata con i pochi amici, non usciva dalla cameretta se non per mangiare o per andare in bagno, e quelle volte che si incrociavano per il corridoio, il dialogo non andava oltre le frasi di circostanza. La situazione è peggiorata quando ha smesso di connettersi durante videolezioni. Solo l’intervento della scuola e i pareri degli assistenti sociali hanno convinto i genitori (e, successivamente, il ragazzo) a rivolgersi nuovamente a degli specialisti per capire quale fosse il problema. È qui che hanno sentito per la prima volta un termine giapponese, di cui non erano assolutamente a conoscenza, che ha definito ciò che il figlio è diventato e che un po’ li spaventa: Andrea è un hikikomori.

Durante la pandemia questo termine ha perso un po’ di quel buio mistero che lo ricopriva negli anni passati, eppure sono ancora molte le persone che non sanno ancora che cosa significhi il termine hikikomori, e che confondono il fenomeno con altri problemi come la dipendenza da internet o la depressione patologica.

Perciò prima di analizzare nello specifico il fenomeno, cercare di capirne la diffusione sul territorio e i possibili sviluppi con e dopo la pandemia, bisogna per prima cosa rispondere alla domanda: che cos’è l’hikikomori?

Stando alla definizione di Marco Crepaldi, fondatore e presidente dell’associazione Hikikomori Italia,“L’hikikomori è una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate”.

Questa definizione (non ne esiste una ufficiale, definitiva) basata sugli studi condotti dal dottor Crepaldi, è abbastanza chiara: non si tratta di una malattia o di una psicopatologia, né di dipendenza da internet e neanche di depressione o di fobia sociale/agorafobia, ma di un disagio adattativo sociale. Un hikikomori è un soggetto che, per reagire alle cause del suo dolore, sceglie di ritirarsi quasi completamente dalla società rifiutando la possibilità di studiare o di trovare un lavoro. Il termine viene dal Giappone, Paese in cui il fenomeno è nato e si è maggiormente sviluppato (i primi casi risalgono agli anni Ottanta e attualmente si conta circa un milione di casi), e significa “stare in disparte”.

A coniare il termine è stato lo psichiatra Tamaiki Saito, uno dei primi studiosi dell’isolamento sociale volontario. Il fenomeno riguarda principalmente la fascia di età compresa tra l’adolescenza e la prima età adulta, dai 15 ai 30 anni, ed è maggiormente diffuso tra i maschi, anche se è possibile pensare che il numero delle ragazze hikikomorisia sottostimato.

Naturalmente ogni caso di hikikomori è diverso, ci sono diverse tipologie e stadi di isolamento sociale volontario, è perciò difficile cercare di dare una definizione generalizzante a un fenomeno così eterogeneo e particolare.

Le cause che portano questi ragazzi a isolarsi dalla società, proprio per l’eterogeneità del fenomeno, possono essere differenti. Bonculture ha cercato di riassumerle usando come fonti i numerosi articoli pubblicati da Hikikomori Italia (https://www.hikikomoriitalia.it/) e il libro scritto da Marco CrepaldiHikikomori – I giovani che non escono di casa”)

Tra le cause scatenanti ci sono, sicuramente, i fattori temperamentali che possono portare a ostacoli nell’instaurare relazioni soddisfacenti e a non reagire efficacemente alle difficoltà della vita, come nel caso di Andrea che fin da piccolo è stato un ragazzo molto sensibile e inibito socialmente. Incisive potrebbero risultare le questioni familiari, come l’assenza di un padre e l’attaccamento eccessivo alla madre, che portano i ragazzi hikikomori ad avere una relazione difficile con i genitori, spesso troppo esigenti e poco comprensivi. Il bullismo è uno dei maggiori motivi che porta i ragazzi più giovani ad auto-isolarsi. Ma tra tutti i fattori sociali, nello specifico le eccessive pressioni di realizzazione sociale,risultano essere le principali cause del fenomeno: generano delle aspettative che, quando ci si scontra con sentimenti di impotenza o di fallimento, possono portare a un rifiuto verso chi le genera come genitori, amici, parenti, insegnanti.

Affermare che queste aspettative non esistono è impossibile, basta pensare alla considerazione che abbiamo verso persone che sono state rimandate o bocciate, di chi non riesce a laurearsi, di chi, a una determinata età non ha già un lavoro oppure dei giovani NEET (Not in Education, Employment or Training) cioè ragazzi che non studiano o non lavorano. È importante sottolineare che tutti gli hikikomori sono NEET, ma non tutti i NEET sono hikikomori, le cause di quest’ultimo fenomeno sono differenti.

Un’ultima causa dell’hikikomori che Marco Crepaldi ha sviscerato in maniera molto approfondita nel suo libro è quella della depressione esistenziale, una forma di depressione teorizzata dallo psichiatra Lodovico Berra che è “il risultato di riflessioni intellettuali sull’esistenza e non derivante da eventi o conflitti intrapsichici”. Gli hikikomori sono spesso ragazzi dotati di una spiccata intelligenza che li porta a una tendenza alla ruminazione di pensieri negativi. Questo fa sì che comprendano più velocemente e subiscano di più la differenza tra quello che è il loro ideale di società e la società reale. Questo si ricollega a un generale sentimento di apatia e alla perdita di uno scopo che dia senso alla loro esistenza.

Alla luce di tutte le cause evidenziate fin qui, sembra quasi inutile dover specificare che non è eliminando internet o i videogiochi che si aiuta un hikikomori a tornare alla normalità, anzi privarlo di una connessione internet spesso significa cancellare l’ultima possibilità di socializzazione che rimane a chi vive questa condizione. La dipendenza da internet o da videogiochi, così come la depressione e i disturbi d’ansia possono essere gli effetti dello stile di vita di un hikikomori, che è caratterizzato non solo da una limitazione dei rapporti sociali, ma anche da un ciclo sonno-veglia invertito.

Stando a quanto sostiene l’associazione Hikikomori Italia, nel nostro Paese dati non ufficiali stimano la presenza di 100.000 casi di hikikomori. Per avere un quadro specifico della situazione pugliese, bonculture ha contattato il dottor Aldo Scirano, psicologo esperto del fenomeno e referente per la provincia di Foggia dei gruppi AMA dell’associazione Hikikomori Italia: “In tutta la Puglia l’associazione tramite i gruppi di auto-mutuo aiuto per i genitori, si occupa di circa 50 famiglie. Si tratta principalmente di maschi di età adolescenziale, anche se non mancano ragazzi di venti e trent’anni”.

Quello che potrebbe sembrare un dato non allarmante a livello numerico non fotografa la reale gravità del fenomeno in Puglia: questi numeri, infatti, descrivono soltanto le famiglie che si sono rivolte all’associazione, pertanto è plausibile pensare che ci sia un alto numero di famiglie che non conosce il fenomeno e non ricorre a un supporto. Lo psicologo Aldo Scirano conferma: “C’è una forte differenza tra le regioni del Nord e del Sud Italia. Il numero di famiglie richiedenti aiuto nel Settentrione è superiore proprio perché lì c’è una maggiore conoscenza del fenomeno, che permette anche di fare più iniziative a scopo divulgativo. Al Sud la situazione è ben diversa e le famiglie, non conoscendo il fenomeno hikikomori, non si rivolgono alle associazioni competenti”.

Bisogna anche sottolineare che quella dell’hikikomori non è una “sindrome” registrata nel DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali,perciò molto spesso potrebbe non essere emessa neanche una “diagnosi” specifica,visto che il ritiro sociale è un sintomo trasversale a molte altre patologie.

Sono proprio i casi sviluppati durante l’emergenza sanitaria i più preoccupanti, perché sono quelli più sottovalutati e di cui ci si accorgerà solo quando la situazione pandemica sarà risolta, ma per loro sarà già troppo tardi. Non a caso le segnalazioni fatte all’associazione durante il primo lockdown erano crollate, ma sono poi riprese esponenzialmente durante il periodo estivo.

Inoltre, come specifica un articolo di Hikikomori Italia la pandemia sta favorendo un aumento dei casi sul territorio nazionale. Esistono tre diversi stadi di hikikomori di cui il primo rappresenta la fase in cui il soggetto sente una pulsione all’isolamento sociale, senza elaborarla consciamente come nello stadio finale, che rappresenta il ritiro completo, e senza sviluppare ancora una motivazione razionale da dare al suo isolamento. Il lockdown, in questi casi, ha alimentato il processo di ritiro sociale, facendo sperimentare i benefici della vita di hikikomori senza pressioni da parte di chi gli stava attorno, proprio come nel caso di Andrea.

Conclude il dottor Scirano:“La condizione degli hikikomori caratterizza in negativo la socialità di una persona in maniera rilevante. Bisogna perciò che un ragazzo in queste condizioni venga individuato e trattato correttamente. Per farlo però è necessario contattare gli specialisti che si occupano di questo fenomeno e le varie associazioni territoriali. Soprattutto non si devono dimenticare le famiglie che hanno un ragazzo o una ragazza hikikomori in casa: non devono essere lasciate sole. Vivere bene con gli altri è la chiave per il benessere”.

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