“Vivere l’hic et nunc in vista del futuro contro l’angoscia da Covid”. Il supporto psicologico a medici e pazienti del dottor Antonio Petrone

by Antonella Soccio

Riuniti e mai soli e Insieme si può sono i due progetti che il Policlinico di Foggia ha attivato per i pazienti e gli operatori sanitari in prima linea contro il Covid-19.

Al centro dell’offerta di supporto il Servizio di Psicologia Ospedaliera diretto dal dottor Antonio Petrone, che offre trattamenti psicoterapici sia per i pazienti in isolamento sia per i medici.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato.

Dottor Petrone come sta procedendo il vostro servizio? Qual è la vostra azione nei reparti Covid-19?

Il progetto Riuniti e mai soli ha un aspetto sociale. Darà ai pazienti un kit di cortesia, dal pigiama alla biancheria intima, tutto quello che serve per l’igiene. Quando i pazienti Covid vanno in ospedale, sono isolati, dobbiamo provvedere noi a tutto quello che loro avrebbero dai familiari, saremo noi ad offrirlo. Naturalmente non è solo questo, abbiamo pensato anche all’aspetto psicologico.

Consegnate il kit agli operatori o vi collegate in videochat col malato?

Abbiamo dato alla caposala dei tablet, uno strumento utile. Poi molto dipende dalla condizione del paziente, una volta superata la fase acuta possiamo parlare anche per telefono, attiviamo questi collegamenti tramite il telefono e tablet e loro possono collegarsi con noi psicologi del Servizio di Psicologia Ospedaliera o con gli assistenti sociali della direzione sanitaria del counseling. Io faccio da coordinatore degli psicologi.

Cosa vi chiedono i pazienti?

In ogni caso i pazienti chiedono di voler parlare, vogliono essere rassicurati, vogliono consigli su come superare questo momento traumatico che purtroppo è lacerante per tutti noi perché non ne conosciamo gli esiti. Questo è un trauma così importante e profondo, perché non ne conosciamo il volto, ci ha spiazzati, ha sconvolto tutti quanti noi. In genere di fronte ad un trauma a seconda dell’entità si mettono in atto dei meccanismi di difesa per resistere e combattere. Di fronte a questo sconvolgente fenomeno, nessuno di noi era pronto e quindi la lacerazione e la ferita sono più profonde.

Per analogia il Covid-19 non può essere paragonato a nessun nostro trauma precedente?

Si fa l’esempio dell’11 settembre, del terrorismo, però conoscevamo i mezzi per combatterli.

Questo a livello generale e politico, ma a livello profondo, individuale cosa accade? A quale memoria ed immagine un paziente può attaccarsi per evitare l’angoscia?

Il paziente che rimane isolato deve attaccarsi alla sua storia personale, ognuno di noi di fronte ad un trauma mette fuori dei meccanismi di difesa che possono essere legati alla suscettibilità della persona, al momento che sta attraversando. Più in generale è la storia della persona che viene messa in campo, tutto quello che la persona nella sua vita si porta dentro come conoscenza di sé, come capacità, come resilienza, ossia tutti quegli aspetti psicologici, che ci portiamo dentro per reagire a qualsiasi trauma.  Dall’incidente automobilistico al tradimento, per esempio. Di fronte a questi eventi noi reagiamo a seconda dell’entità, della capacità della persona di interagire con le difficoltà. Certo una persona fragile, con delle difficoltà, che si porta una storia personale fatta già di problemi e che non ha conoscenza e consapevolezza di sé, di fronte ad una situazione traumatica reagisce non solo con la paura e con l’angoscia.

Vi è capitato di rispondere a dei pazienti Covid così tanto fragili?

Sì, perché trasformano la paura in angoscia, la paura è fisiologica, rispetto alla paura possiamo dare delle risposte perché la vita ci ha messi nelle condizioni di avere delle difficoltà, ognuno sa come rispondere con le proprie capacità personali. Ma quando la paura si trasforma in angoscia, assume caratteristiche laceranti e lì diventa difficile uscirne, serve il contributo di qualcuno che ti riporti alla consapevolezza, alla razionalizzazione dell’evento, alla capacità di razionalizzare.

Come fate a riportare i pazienti per certi versi anche alla superficialità del quotidiano? Ci sono dei diversivi nella camera?

Sì, mettiamo la persona nelle condizioni di sentirsi come a casa propria, non solo nel rapporto con gli operatori, ma anche nella logistica, nelle comodità che possiamo offrire, come la tv, la lettura.

Uno stato d’angoscia favorisce l’aggressione del virus, vero?

Quando il nostro corpo non è più nostro alleato- non esiste la differenza tra corpo e mente noi siamo un tutt’uno il nostro corpo è un oggetto psichico- quando la persona sta bene, c’è un’unità corpo/mente, il nostro corpo ci porta in giro per il mondo, meno male che c’è lui. Quando la persona si ammala, anche di un banale raffreddore, subisce una regressione, si diventa più piccini psicologicamente, si ha bisogno di coccole e cure. Di fronte ad un trauma importante come il Covid ma anche davanti ad una malattia oncologica, si ha una regressione psicologica così profonda al punto che questo corpo che un tempo era un alleato, e io vivevo in proiezione del mio corpo e mi proiettavo nel futuro, con la malattia fa restringere il mio futuro, diventa un presente piccolo in condizioni fisiche e psicologiche fragili. Ci sono persone che ricorrono mentalmente al passato, come se cercassero il conforto alla loro fissazione.

Lei diceva però che la storia personale può essere d’aiuto a superare l’angoscia. Le immagini del passato non possono allievare l’ansia?

cSì, ma quando il passato è bello, quando la nostalgia è positiva e c’è il bello di quello che ero, ma deve essere sempre alleata col presente, altrimenti il rischio è la depressione. Con la nostalgia dobbiamo avere un rapporto di chi guarda al passato come rappresentazione mentale e vissuti e momenti della vita che mi fanno essere ancora oggi quel che ero. Ma se ad un certo punto oggi non sono più quel che ero, perché il futuro mi è negato per via della malattia, quel passato rischia di avere una nostalgia con sfondi depressivi e non va sempre bene, perché dobbiamo vivere l’hic et nunc in vista del futuro. Addirittura col Coronavirus la cosa diventa ancora più complessa. Nella malattia in genere abbiamo persone intorno che ci curano, qui addirittura nessuno si può avvicinare, viviamo uno spaesamento, una angoscia profonda. Nella cura chiediamo aiuto, ma ora nessuno ce la può dare, soltanto gli operatori, ma in realtà neppure loro perché con tutti i dispositivi il contatto è negato. Il malato quando va in ospedale cerca l’ascolto e lo sguardo del medico, ma c’è anche la cura fisica, gli infermieri che si prendono cura del corpo malato: c’è tutto un contatto umano che in questo caso viene evitato. Deve essere evitato.

Lei ha riscontrato il senso di colpa di essere potenziale untore? C’è un senso di colpa profondo associato alla depressione?

Sì, c’è. Ho avuto recentemente una telefonata di una infermiera che è in quarantena e chiaramente ha una grossa paura. Sta a casa, vive in una stanza da sola e lei ha paura di poter infettare i figli. Ha una profonda paura, è qualcosa che sconvolge ancora di più. Gli operatori provano questo senso di colpa.

Abbiamo sentito tanti operatori sanitari in queste settimane, l’impressione che si ha dall’esterno è che loro vivano un carico emotivo così forte tale quasi da esplodere. È come se il mondo esterno non riuscisse a comprendere e ad interiorizzare l’immensa profondità di cui sono investiti.

Perché si diventa medici o infermieri? Si diventa medici perché viviamo una missione fin dal momento in cui decidiamo di fare questa professione. Succede che io medico con le mie capacità intellettive, con le mie conoscenze scientifiche, con il mio ethos umanitario, aiuto l’altro, gli do la vita, il benessere, la cura. Questo aspetto qui però di fronte ad una situazione come questa potrebbe andare in crisi, c’è il rischio di sentirsi impotente. È come se scuotesse le fondamenta e la struttura mentale e psicologica.

I medici rischiano di sentirsi privi di senso…

Sì, se mi confronto con questo aspetto e come persona sono un po’ fragilina c’è il rischio che scuoto il ruolo e l’istituzione che mi porto dentro. Gli operatori devono essere messi continuamente di fronte a 3 situazioni: il benessere mio personale, devo stare bene perché devo fare bene, non solo a me e ai pazienti e ai parenti, ma all’Ospedale. Un medico come l’insegnante è messo continuamente in gioco a più livelli, non ha un solo livello come può essere per l’impiegato che ha a che fare con le carte e con le gerarchie. Per un medico ci sono io, c’è l’altro e c’è il gruppo, l’istituzione, l’Ospedale, la società. Questi 3 livelli devono essere sempre in armonia tra di loro, se qualche volta mi sento che il Covid è troppo più grande di me si può andare in crisi. È chiaro che dovremmo conoscere il nostro limite, un medico non è onnipotente né può pensare di risolvere tutto. L’idea di voler dare tanto aiuto, a volte può portare il medico in burn out.

A Foggia non ci sono mai stati questi sentimenti, vero?

No, no, no. Tutto sommato la situazione nostra non la sento negativa, c’è stata una buona organizzazione. Tuttavia se non ci fosse questo disagio sarebbe una cosa pazzesca. Il disagio è la misura di quanto siamo umani, l’importante è che il disagio non si trasformi in una crisi personale, però il disagio è giusto che ci sia. Come sappiamo, dentro di noi, abbiamo tutti gli strumenti per fronteggiare i traumi. Questa è una situazione che nessuno conosceva, perciò è sconvolgente.

Ci sono state delle morti molto violente, come quella del brigadiere dell’Arma, che era anche abbastanza giovane. C’è stata la narrazione eroica del lavoro dei medici, ma col Covid-19 purtroppo inspiegabilmente si muore anche dinanzi all’eroismo dei camici bianchi. Ci sono stati casi di medici che si sono sentiti sopraffatti dall’evento luttuoso e vi hanno chiesto aiuto?

Il caso del brigadiere ha sorpreso un po’ tutti, però dobbiamo tener conto che può accadere, anzi il principio è che si muore perché ci ammaliamo, prima o poi ci ammaliamo e ci ammaliamo perché dobbiamo morire, non è che moriamo perché ci ammaliamo. Può accadere. Il paziente ha sofferto molto.

Sperando che la tempesta finisca il prima possibile, cosa crede che lascerà il Covid nella classe medica?

Dobbiamo attrezzarsi per il post trauma, toglieremo le mascherine fisiche, ma avremo quelle psicologiche ancora. Si chiama trauma secondario. Questo evento come tutte le crisi quando sono interessanti porterà ad una evoluzione. Chi era già ok, era consapevole, aveva coscienza etica, ingigantirà il suo modo di essere solidale, chi viveva una vita dove conta l’effimero, la superficialità, rimarrà tale. Prende coscienza chi questa coscienza ce l’ha già in itinere. Siamo coinvolti in un sistema molto più grosso del nostro. In Europa fanno un conteggio economico di una cosa così grossa. Quando finirà la tempesta, si tornerà a parlare di economia e umanizzazione.

Voi potreste essere travolti come servizio da tante depressioni causate dalle povertà, è ipotizzabile questo scenario?

Sì, le richieste di aiuto saranno sul dopo, su come faccio ad andare avanti col lavoro che non c’è, coi bambini che devono andare a scuola. Questi elementi già ci sono, lavoro qui da oltre 30 anni e la modalità di approccio al disagio psichico è cambiato notevolmente. Prima venivano le persone che avevano difficoltà a relazionarsi con l’autorità e col senso del dovere, adesso si rivolgono a noi perché non vedono un futuro, non hanno uno scopo: il disagio non nasce più da una istanza interiore rispetto all’autorità che era tipico degli anni Ottanta e Novanta, ora siamo di fronte a persone giovani che vengono qui perché manca lo scopo. C’è un disagio, una spersonalizzazione.

Immagina che ci potranno essere fenomeni psicotici più importanti nei prossimi mesi?

Qualcuno teme che ci sarà una sorta di rivolta sociale, però non credo nella psicosi. La paura della malattia e quello che provoca la malattia è la paura della morte. Cominceremo ad organizzarci con quello che abbiamo. Forse potrebbero esserci degli episodi di rivolta sociale, ma io ho la sensazione che non ci sarà una ribellione.

Per fare una rivolta sociale occorre anche tanta energia interiore che forse in questo momento non c’è, o no?

Anche. La disperazione può portare alla ribellione, ma io la vedo più come un fenomeno individuale o di mini gruppi, piccoli gruppi, penso che questa massa di persone troverà una qualche direzione. Quando parlo di massa mi riferisco ad un gruppo di persone che non ha più qualcuno che li organizzi. Se non c’è qualcuno che organizza la massa, essa perde le sue coordinate.

Si è discusso di una tendenza all’autoritarismo. Questo scontro tra la libertà privata individuale e l’autorità imposta non potrebbe creare dei disagi psichici?

Freud ci ha insegnato che l’uomo è disposto a rinunciare ad un po’ della sua felicità perché ci sia qualcuno che organizzi la sicurezza, siamo disposti a rinunciare al benessere e alle regole morali, se c’è qualcuno si prende cura di noi. Serve qualcuno che organizzi la ripresa, se ci rendiamo che questa guida è necessaria, io credo che sarà benedetta.

Chi non rispetta la massima di Freud è già malato in sé, quindi?

Certo, l’uomo se conosce i propri limiti ed è capace di rinunzie, conosce se stesso. Conosci te stesso e accetta i limiti: questa è la salute psichica. Ci sono due motivi per cui si potrebbe non accettare il limite: o perché si ha bisogno di una vita effimera. Oppure perché c’è qualcosa dentro, una insoddisfazione, delle ferite che curi con una vita senza limite. Il tossico dipendente questo fa, va alla ricerca continua di qualcosa che soddisfi una ferita interiore, che non sa curare attraverso la consapevolezza. La democrazia è affidarsi all’altro, all’ente. È una delega sana. Chi non riuscirà a farlo, si porta dentro un disagio.

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