Sami Modiano e il ricordo dell’orrore della Shoah: «Una domanda mi ha tormentato la vita: perché non sono morto? Perché io?»

by Felice Sblendorio

Con una voce sfibrata dall’inferno più cupo, c’è ancora una domanda che martella incessantemente la sua vita: «Perché io? Perché io?». Sami Modiano, a novant’anni, non ha ancora trovato una risposta plausibile: si chiede continuamente perché, proprio lui, sia sopravvissuto all’orrore della Shoah e alla morte in quell’infallibile campo di sterminio di Auschwitz.

Se lo chiede dopo una vita dolorosa e difficile che, oggi, mostra a quest’uomo dagli occhi incantati un volto più umano e dolce dell’esistenza. Sami, nato sull’Isola di Rodi e deportato con suo padre e sua sorella – entrambi morti in quel campo, è uno degli ultimi undici italiani sopravvissuti all’Olocausto secondo l’analisi dell’Unione delle Comunità Ebraiche condotta dallo storico Marcello Pezzetti. Un impegno da testimone, vissuto come un dovere, che Sami anima con un racconto che ferisce l’anima e inquieta il cuore. Il racconto di un bambino che è diventato uomo nei campi di sterminio: disarmato, con un solo numero sul braccio, abbandonato e condannato alla memoria nel ricordo doloroso dei sommersi, e nell’incubo feroce dei salvati.

Samuele, detto Sami, novant’anni e una vita tormentata dall’orrore dei campi di sterminio e dal dramma della Shoah. Oggi il suo volto è quello di un uomo sereno, pacificato.

Sì, non ho mai coltivato il rancore, l’odio. Le mie esperienze mi hanno cambiato, ma l’educazione che ho avuto – nei pochi anni in cui ho conosciuto i miei genitori – mi ha salvato. Sono stato un bambino felice nella bellissima isola di Rodi, la mia isola delle rose. All’epoca c’erano quattro comunità religiose con cui abbiamo sempre vissuto senza nessun problema. Non c’erano differenze, eravamo tutti uguali.

Ricorda sempre il mare di quell’isola, quel mare senza confini…

Io sono nato nel mare e il mare, che non accetta barriere, è una costante nella mia vita. Da tanti anni abito a Ostia, di fronte al mare: se non lo vedo, se non lo sento, non sto bene.

Dopo una breve infanzia felice lei ha subito sulla sua pelle l’odio, la discriminazione. Nel 1938 Mussolini approva le Leggi Razziali e lei è costretto ad abbandonare la scuola. Cosa ricorda di quel giorno?

Avevo 8 anni e frequentavo la terza elementare. Ero bravo, mi piaceva andare a scuola. Per un bambino andare bene a scuola significava essere ben voluto, ricevere una carezza dal proprio genitore. Tutto questo, all’improvviso, si è spezzato. Il mio insegnante, sottovoce e amareggiato, un giorno mi disse: «Sami, sei espulso dalla scuola». Non dimenticherò mai quel momento. Scoppiai in una crisi di pianto e dissi: «Scusi, che cosa ho fatto di male per essere espulso?». L’insegnante, che non si aspettava una crisi del genere, con una carezza mi asciugò le lacrime e mi disse: «Nulla, non hai commesso nulla di male, Sami. Torna a casa, tuo padre ti spiegherà».

Lei non comprese la spiegazione di suo padre. Non ha mai accettato di essere diverso?

Ho rifiutato le spiegazioni che mio padre mi dava. Continuavo a ripetere che non era possibile, che non avevo problemi con gli altri ragazzi. Se avevano espulso me che ero ebreo, perchè non l’avevano fatto anche con tutti gli altri studenti di religioni diverse? Quell’espulsione non l’ho compresa a 8 anni e non la comprendo neppure oggi, a 90. Non la comprenderò mai perchè non ero e non sono diverso. Sono sempre appartenuto al genere umano, l’unico che io conosca.

Nel 1944, in piena estate, un lungo viaggio la portò ad Auschwitz. Ha cominciato a perdere la sua dignità umana già su quel treno.

Il mio fu il viaggio più lungo. I tedeschi cominciarono a portarci nei campi di concentramento, ma noi non sapevamo nulla. Sono partito a 14 anni. C’era mio padre, Giacobbe, e mia sorella, Lucia. Avevo già perso mia madre: nel 1941 è morta per problemi cardiaci. Ringrazio sempre Dio per averla risparmiata da quell’orrore. Siamo partiti il 18 luglio del 1944 e solamente il 16 agosto siamo arrivati alla fabbrica della morte di Birkenau, ad Auschwitz. Fu un viaggio disumano. In un mese abbiamo dovuto buttare a mare e nelle stazioni in cui ci si fermava decine e decine di cadaveri. Eravamo delle bestie, ammassati in 80 o 90 persone nelle stive. Con quel viaggio finì la mia infanzia e cominciò l’inferno.

Auschwitz resta un male assoluto, un buco nero della storia e dell’umanità. In molti hanno detto che da quel campo di sterminio non si esce mai.

Io non sono mai uscito. Sono un sopravvissuto, ma sono ancora dentro quel campo. Non si può cancellare quello che ho visto. I miei occhi hanno visto cose orrende, cose che non si possono spiegare perché risulterebbero irreali. In novant’anni di vita non ho ancora trovato le parole giuste per raccontare e definire Birkenau. No: non ci sono parole. Un essere umano non può immaginare tale disumanità. In quel campo ho conosciuto solo il male. Non c’è mai stato spazio per un gesto di umanità. Quel campo era posseduto solamente dall’orrore, dalla fame, dal freddo.

È tornato dopo sessant’anni in quel campo di morte: ha ricordato tutto?

Non ho dimenticato neppure una virgola. Dopo sessant’anni mi sono ricordato ogni cosa. Ho rivisto tutta l’angoscia di quei mesi trascorsi nel campo. Mi hanno accompagnato 300 studenti e un mio caro amico, un fratello: Piero Terracina. Eravamo due ragazzi in quel campo, non immaginavamo di sopravvivere. Abbiamo legato un’amicizia che credevamo sarebbe finita in quel campo, con la nostra morte. Se eri un numero, automaticamente eri condannato a morte. La nostra vita serviva solamente per far funzionare quella fabbrica, quell’ingranaggio di morte. Una vita calpestata per la loro assurda e feroce follia.

Cosa non è ancora riuscito ad accettare dopo tutto questo tempo?

Non accetterò mai la crudeltà della morte. Avete sentito parlare di Anne Frank? Bene, di Anne ce n’erano a migliaia. Bambini bellissimi, che avevano voglia di vivere. Non avevano nessuna colpa, come la mia adorata sorella Lucia. Questo è un male che non si può digerire. Come fai ad ammazzare in questo modo? Che coraggio devi avere? Come puoi fare tutto questo? Il male non si cancella, ma rimane. Non ci sono spugne magiche che strofini sugli occhi e sul viso e fanno scomparire tutto. No, non esiste. In tutti questi anni non ho mai accettato la malvagità di quelle persone.

Una malvagità che si è abbattuta in maniera totalizzante e violenta contro la comunità ebraica, ma non solo…

Hanno ucciso anche omosessuali, disabili, politici, rom. Persone innocenti che erano colpevoli solamente di una cosa: di essere nati. La morte è stata la mia compagna di viaggio. Ho visto squarciare coppie di gemelli per studiarli. Ho visto uccidere a pezzi nani e massacrare disabili per studiare la loro natura. In quel campo qualsiasi cosa veniva distrutta.

Suo padre prima di morire le diede la forza di continuare. Ha resistito per lui?

Mio padre aveva deciso di farsi visitare in infermeria, il luogo della condanna a morte. Prima di questa sua dolorosa decisione mi disse una cosa: «Sami, sei forte. Devi farcela. Ce la farai!». Se sono ancora vivo forse è per quella promessa. Ho resistito sette mesi e ho affrontato la marcia della morte. Pesavo 25 chili, faceva freddo, ero protetto solamente da un pigiama a righe e da un paio di zoccoli. Quella marcia, poco prima della liberazione dei campi, fu una cosa dolorosissima. C’erano i tedeschi ancora più incattiviti: se qualcuno avesse ceduto, si sarebbe passati subito al colpo di grazia. C’era un ordine ben preciso: nessuno doveva rimanere in vita. Si dovevano eliminare tutti i possibili testimoni.

In quei mesi ha scampato spesso la morte. Perché è riuscito a sconfiggerla?

Non lo so, ma ho tentato e sfiorato spesso la morte. L’ultimo appuntamento fu proprio in quella marcia. Ero stremato e, dopo due chilometri, il mio cervello smise di funzionare: il corpo aveva ceduto. Stavo aspettando il mio colpo di grazia. In quel delirio ero calmo, felice: mi stavo avvicinando a tutti i miei cari e a tutti quelle anime che avevo visto morire. Inaspettatamente, però, due prigionieri ebrei fecero un gesto inconcepibile: mi hanno sollevato e mi hanno trascinato per un po’. Stremati, mi appoggiarono su un mucchio di cadaveri. I tedeschi non ci fecero caso e mi salvai dal loro colpo finale. Mi sono riparato in una casa di mattoni e il 27 gennaio del 1945 mi sono risvegliato fra le braccia di una dottoressa russa.

Non ha mai compreso quel gesto di ritrovata umanità?

Mai. Quella domanda mi ha tormentato e mi tormenterà per tutta la vita. Perchè mi hanno salvato? Perchè hanno ritrovato quell’umanità perduta proprio in quel momento? Perchè non sono morto? Perchè io?

Forse perchè era destinato a ricordare, a testimoniare quello che è stato.

Esatto. Io mi sono chiuso in un silenzio totale. Dopo quell’esperienza non sono più una persona normale: ho una piaga che non si chiuderà mai. Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Prima non ero diverso, ma ora sì. Dal 2005 ho cominciato a parlare e non mi sono più fermato. Tutto quello che ho visto non lo posso dimenticare. Ho un dovere: quello della memoria. Ricorderò quelle persone morte e, quando non ci sarò più, ci saranno tutti i ragazzi incontrati in questi anni a ricordare, a raccontare quello che abbiamo vissuto. I giovani sono la mia speranza.

Primo Levi ha scritto: «Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso». Molti sopravvissuti hanno perso molto di sé e, dopo la liberazione, sono stati tormentati dal senso di colpa. Proprio Levi, per il peso di essere libero, si è suicidato. Lei ha mai sentito quel peso?

All’inizio sì, mi sono sentito un privilegiato. Poi ho vissuto questo trascorso in modo diverso. Grazie a Dio oggi mi sento felice. Gli ultimi 15 anni di questa vita sono stati felici. Io, alla fine, sono stato scelto: se sono in vita c’era e c’è uno scopo.

Dopo la Shoah, Hans Jonas scrisse che il concetto di Dio doveva mutare radicalmente abbandonando l’idea di onnipotenza. In quel campo Dio era un mistero?

In molti hanno perso la fede. Anche io l’ho persa, ma poi l’ho ritrovata. La mia è stata una ribellione: quando vedi ammazzare bambini solamente per piacere allora ti sfoghi: se io vedo certe cose, lui dov’è? Non le vede? Ho pensato spesso che lui non ci fosse, che fosse un mistero, ma poi l’ho ritrovato nella mia vita. 

Da tanto tempo accanto a lei c’è Selma, sua moglie. L’amore è stato una salvezza?

Una fortuna. Non è facile stare accanto a un sopravvissuto. Lei mi ha capito e le sono grato, moltissimo. Quest’anno abbiamo festeggiato sessantatré anni di matrimonio: un dono. Non abbiamo avuto figli, ma siamo nonni di tutti quei ragazzi che abbiamo incontrato: loro sono i nostri nipotini.

Tantissimi seguono e diffondono la sua testimonianza. Nel nostro Paese, però, c’è una minoranza vergognosa che offende il dolore che ha subito. Cosa sente di dire a queste persone?

Bisogna stare molto attenti a questi tranelli. Se sono ignoranti sono innocui, ma c’è tanta gente colta che nega l’evidenza. Il mio corpo è la testimonianza più importante: sono qui. Bisogna coltivare la memoria con i ragazzi, che sono il nostro domani. Noi dobbiamo semplicemente spiegare, non convincere. Quella era una realtà, e questa è la nostra verità. Poi sta a tutti voi scegliere: se stare dalla parte di chi ha vissuto quell’inferno o dalla parte di chi odia.

I suoi occhi sembrano contenere tutta la fragile e contraddittoria umanità del mondo. Cosa spera di vedere ancora in questa vita?

Spero di vedere un mondo felice, pacifico. Potrà sembrare banale, ma chi come me si è salvato dall’odio assoluto lo deve ripetere: siamo tutti uguali. Non ci devono essere differenze, bisogna volersi bene. Se ci possiamo aiutare perchè non lo facciamo? Davanti a questi miei occhi voglio vedere la pace. Una speranza che, nonostante Auschwitz, non ho mai abbandonato.

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