Alle origini del “neneismo”. La sinistra italiana, la coperta di Linus e la fuga dalla Storia

by Enrico Ciccarelli

Non trovo né incomprensibile né sbagliato che molti Italiani, forse la maggioranza, siano contrari all’invio di armi all’Ucraina. Esiste un’indole provvidenzialmente pacifica dei popoli che cerca di evitare il coinvolgimento in conflitti che all’apparenza non li riguardino. In Italia questa vocazione è così marcata che sono assai pochi e remoti i luoghi dello Stivale che ricordino fatti d’arme di rilievo paragonabile ad Austerlitz o a Waterloo e Stalingrado (la battaglia più immane della storia umana, peraltro). Né fu per caso che durante la Guerra dei Trent’Anni la penisola venisse chiamata dai Francesi il cimitero degli eserciti.

Non è quindi scandaloso che si vada in piazza srotolando striscioni che recitano “Né con Putin, né con la Nato”, benché significhino essenzialmente “con Putin”. Preferisco l’ipocrita codardia dei pacifisti alle vongole delle nostre città alla marea di imbecilli che in quel lontano giugno del 1940 a piazza Venezia si spellavano le mani ad applaudire l’Uomo della Provvidenza che li stava mandando al massacro.

La comprensione umana, però, non può costituire condivisione o acquiescenza. Non per la tristezza, lo sdegno, l’istintiva ripugnanza che destano atteggiamenti che, consapevolmente o no, agevolano il nuovo bullo globale e distolgono il viso dal crudele martirio degli Ucraini: abbiamo avallato e promosso per anni una cultura dell’istante, dell’amnesia, della disattenzione e questi ne sono gli inevitabili risultati. Questi comportamenti sono irricevibili e inaccettabili, più ancora di quanto non sarebbe una aperta condivisione e un  chiaro sostegno alle azioni di Putin, perché rappresentano una fuga dalla realtà, un tentativo velleitario e patetico di sottrarsi alla storia.

Certo, come scrive Montale, La storia non è poi la devastante ruspa che si dice: è del tutto legittimo che a livello personale e individuale si cerchi un altrove, un limbo appartato nel quale disinteressarsi del mondo e dei suoi travagli. Quello che è ridicolo è pensare di farlo collettivamente, come proposta politica. Il neneismo, né con Tizio né con Caio è una contraddizione in termini, se posto come identità collettiva. Certo, si sta con Tizio o con Caio senza tacersi che entrambi avranno dei difetti, che ciascuno di loro desta più di una riserva critica, perché la storia e i suoi conflitti non sono Armageddon, la biblica battaglia finale tra il Bene e il Male.

È solo che, tutto considerato, alla fine ci saranno abbastanza elementi per capire che, anche in un conflitto tra gaglioffi, ci sarà uno con minore gaglioffaggine, o uno che sentiamo da noi meno distante, o uno la cui amicizia reputiamo più conveniente. Credo che qualunque persona di buonsenso detesti i missili nucleari; ma ha diverse ragioni per trovare più detestabili quelli che sono puntati sulla sua città.

Ma perché l’Italia è il Paese dove più di altri fiorisce la pianta del “neneismo”? Perché la sinistra del nostro Paese è l’unica a praticarla con voluttà, a volte con assoluto disprezzo del ridicolo, si tratti della guerra d’Ucraina o di quella del Golfo, dello Stato o delle Brigate Rosse, del populismo e dell’europeismo? Certo, molto dipende dalla relativa giovinezza della nostra comunità nazionale, che è stata di lingua e di tradizioni ben prima che di esercito. Secoli di culto del particulare guicciardiniano e di familismo amorale hanno favorito una percezione della storia piuttosto labile, imprecisa, episodica. Se la storia insegna, ma non ha scolari, il tasso di evasione scolastica in materia è in Italia plebiscitario.

Ma a rendere quasi sistemico il ricorso al neneismo è il pesante tributo pagato dalla sinistra italiana al lungo dominio delle sue componenti massimaliste, che poi hanno trovato terreno fertile nel settarismo bolscevico e comunista (fino al partito nuovo di Togliatti, che rese il Pci una forza politica popolare di massa profondamente radicata nei territori.

La prima grande prova di questa fuga dalla storia la si ebbe con la Prima Guerra Mondiale, che rappresentò in tutta Europa una prova devastante per il movimento operaio. I socialisti francesi pagarono con il sangue di Jean Jaurès la loro contrarietà alla guerra, mentre quelli tedeschi si spaccarono, con la maggioranza del partito al fianco del Kaiser e gli spartachisti di Rosa Luxembourg a scindersi, e il Labour britannico accettò addirittura di entrare a far parte del Governo di unità nazionale.

E l’Italia? Il Partito Socialista, dopo avere espulso l’incendiario tribuno Benito Mussolini, al tempo direttore dell’Avanti! e fervente interventista, scelse appunto la linea del né aderire, né sabotare. Un abborracciato compromesso che non impedì che il primo e più grande partito politico della storia d’Italia (costituito meno di trent’anni prima) andasse incontro a ripetute scissioni ed epurazioni, arrivando ad espellere il suo fondatore Filippo Turati.

L’incapacità dei socialisti di far fronte al drammatico primo dopoguerra, con il clima da guerra civile strisciante del quadriennio 1919-22, l’autoreferenzialità introflessa delle infinite battaglie interne, fu anche il frutto di questa assoluta incapacità di realismo e di senso storico, che troppo tardi si tradusse nella pagina nobile e inutile dell’Aventino, all’indomani dell’omicidio di Giacomo Matteotti.
Perché il rifiuto della storia conduce a soliloqui di ubriachezza, a rifugiarsi in una virtuosa purezza che è in realtà il feticcio rassicurante della coperta di Linus, la rassicurazione che nemmeno questa volta saremo costretti a diventare adulti, che potremo anche questa volta pensare che le tragedie, le ferite e i lutti del mondo non ci riguardino. Spiace, ma non è così.

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