Anna Paola Concia, le ceneri di Vanessa Zappalà e i talebani fra noi

by Enrico Ciccarelli

Da Italiano mi vergogno molto di essere compatriota dei magistrati catanesi che hanno rilasciato dichiarazioni (non esito a definirle ripugnanti e mostruose) sulla morte di Vanessa Zappalà, la ragazza di Aci Trezza assassinata dall’ex che poi si è assai opportunamente suicidato (scusate, non riesco a provare alcuna pietà per costui).
La storia non ha niente di inedito: una ragazza perseguitata che denuncia invano, gli inquirenti che prendono provvedimenti all’acqua di rose, l’inevitabile tragico epilogo. È la donna ammazzata numero 41 in Italia. Il caso si mostra particolarmente odioso proprio per lo sfregio post-mortem che questi ignobili individui in toga le hanno inferto, accusandola di comportamenti contraddittori e ambigui (dopo un primo episodio di violenze, si era riappacificata) e deplorando in generale le “denunce ritorsive” che molte donne presenterebbero per poi riconciliarsi con il partner.

Anna Paola Concia ha scritto un tweet particolarmente duro, parlando di un muro di omertà maschile, che coinvolge inquirenti e magistrati. Una posizione che ha destato polemiche roventi, ma che secondo me è persino timida. Perché non c’è dubbio che l’approccio della stragrande maggioranza delle forze dell’ordine e dei giudici sia intrisa fino al midollo della cultura del patriarcato. In forza dell’antico detto “fra moglie e marito non mettere il dito”, gli interventi su vicende di violenza domestica sono palesemente orientati alla riconciliazione; e quando si parla di fidanzati l’atteggiamento prevalente è quello di derubricare tutto a ragazzata o eccesso di focosità, persino in caso di ragazze e mogli costrette a ricorrere al posto di Pronto Soccorso.
D’altronde uno dei togati il cui nome non voglio ricordare, quando gli è stato ricordato che l’assassino di Vanessa, stando alla denuncia da lei presentata, gli aveva detto che le avrebbe sparato se avesse saputo che stava con un altro, ha tenuto a rimarcare che si trattava solo di parole, perché l’assassino non le aveva effettivamente puntato una pistola contro (giuro, lo ha detto). E ci si stupisce che, di fronte a questo atteggiamento delle istituzioni molte donne, vuoi perché fragili o costrette dal bisogno, vuoi perché pressate dalla cultura dominante, accettino di rimettersi nelle mani del loro carnefice?
Tuttavia, come dicevo, Anna Paola Concia si sbaglia per difetto. Certamente sarà utile curare meglio la formazione e la preparazione, magari specializzando specifiche squadre anti-stalking e provando a far vergognare almeno un po’ questi magistrati incompetenti e indegni; ma che dire della totale mancanza di stigma sociale nei confronti di chi ha comportamenti violenti nei confronti delle donne? Lo sapete, lo sappiamo tutti: il ricorso alla violenza e alla coercizione fisica nei confronti di mogli, conviventi fidanzate e amanti è diffuso in modo impressionante e trasversale all’anagrafe, al reddito, all’istruzione e alla posizione sociale.

Non solo queste persone non sono esecrate e poste ai margini della civile convivenza, ma prevale nei loro confronti un atteggiamento benevolente e giustificazionista, quando non di malcelata ammirazione. La maggior parte del biasimo e della riprovazione è nei confronti delle donne picchiate. Se professionisti accorsati, artigiani alacri, giovani ridanciani e cortesi negozianti usano come punching ball volti e corpi di una donna, sarà sicuramente perché se lo sono meritato: perché civette e potenziali adultere, o frigide e poco compaicenti, o spendaccione e bisbetiche, o semplicemente rompicoglioni e incapaci di prendere il loro uomo per il verso giusto.
Alla vergogna e al dolore per la violenza subita, alla sfiducia nelle istituzioni e alle preoccupazioni economiche o eventualmente per i figli, si unisce il timore dello stigma sociale, di ciò che la voce pubblica potrà fare del loro dramma. Ditevi la verità, voi che leggete: quante ne conoscete, di situazioni così? E quante di voi le hanno vissute? Quante le stanno vivendo? Il femminicidio non è che l’estremo punto di acuzie di un male radicato e profondo, di abusi e sopraffazioni che continuano ad avere una legittimazione morale infame quanto diffusa. È chiaro che considerando sciocchezze o bagatelle lo schiaffo, l’occhio nero, i lividi, la soglia dell’allarme si sposterà alle lesioni. E sarà forte troppo tardi, a quel punto, per fermare chi ha preso la ruzzola del delirio di possesso. Sul calcio della pistola che ha esploso i sette colpi che hanno ucciso la sventurata Vanessa Zappalà ci sono materialmente solo le impronte del suo feroce assassino. Ma quelle morali sono moltitudine, e non solo di poliziotti ignavi e magistrati pavidi. Non tutti i talebani sono in Afghanistan.

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