Artigli retrattili, vibrisse, occhi fosforescenti. Come la poesia celebra il mistero dei gatti

by Enrico Ciccarelli

Saltata domenica scorsa per non sovrapporla al servizio su «Fuori i poeti», la passeggiata poetica è dedicata, come promesso, ai gatti, più precisamente ai mici, visto che tecnicamente la gattezza platonica o felinità comprende anche la tigre del Bengala, il leone, il ghepardo e altri simpatici e letali predatori.

Misterioso ed elegante, il gatto è da sempre un simulacro di divinità: se il cane è il compagno fedele e devoto, sempre pronto a dispensare e ricevere affetto, il gatto è un partner, con precise e delimitate sfere di scambio e di autonomia. Chiunque abbia avuto un gatto può testimoniare che il suo affetto avaro di smancerie è tuttavia saldissimo e la relazione con l’umano è spettacolare per intensità e imprevedibilità.

Sono molti i poeti che hanno cantato dei nostri soci muniti di vibrisse: celeberrimo fra loro è Charles Baudelaire. Prototipo del «poeta maledetto», dobbiamo a lui e al suo capolavoro, «I fiori del male» l’idea che il negativo, la tenebra abbiano bellezza e fascino uguali o superiori a quelle della retta via. Il poeta ci mette tutto il suo Edipo irrisolto (la sua biografia è dominata dall’odio per il patrigno, il militare sposato in seconde nozze da sua madre vedova), le sue idee politiche non allineate, la sua vita dissoluta di amori mercenari, assenzio e haschisc (Le Club des Hachichins  si chiamava il sodalizio cui partecipò con Dumas padre, Balzac, De Nerval, Gautier e altri).

La fortuna poetica di «Les fleurs du mal» con il suo celebre incipit («Ipocrita lettore, mio simile e fratello!», ultimo verso della prima poesia della raccolta) è stata ed è planetaria e plurisecolare. Qui leggiamo

IL GATTO

Vieni bel gatto, vieni sul mio cuore amoroso;
trattieni i tuoi artigli
ch’io mi sprofondi dentro i tuoi begli occhi d’agata e metallo.
Quando a bell’agio le mie dita a lungo
ti carezzan la testa e il dorso elastico,
e gode la mia mano ebbra al toccare il tuo corpo elettrico,
vedo in spirito la mia donna:
profondo e freddo come il tuo, il suo sguardo, bestia amabile,
penetra tagliente come fosse una freccia,
e dai piedi alla testa
una sottile aria, rischioso effluvio,
tutt’intorno gira al suo corpo bruno.

 Appare evidente il contrasto fra la bonarietà dei versi e il loro sottile substrato demoniaco: non è un caso che il gatto nero Behemot, che pretende di pagare il biglietto del tram, sia il più divertente fra i diavoli che invadono la Mosca della Nep nel romanzo di Bulgakov «Il Maestro e Margherita».  Questa caratteristica riluce maggiormente nella lirica di Paul Verlaine, che a Baudelaire si ispirò, e che punta sulle similitudini fra la donna e il gatto.

DONNE E GATTI

Lei giocava con la sua gatta
E che meraviglia era vedere
La bianca mano e la bianca zampa
Trastullarsi nell’ombra della sera!
Lei nascondeva – la scellerata –
Sotto i guanti di filo nero
Le micidiali unghie d’agata
Taglienti e chiare come un rasoio.
Anche l’altra faceva la smorfiosa
E ritraeva i suoi artigli d’acciaio,
Ma il diavolo non ci perdeva nulla
E nel boudoir, in cui tintinnava, aereo,
Il suo riso, scintillavano quattro punti fosforescenti.

Bella, vero? D’altronde il trio compatto delle belle ragazze di un cartoon giapponese non esibiva forse occhi di gatto come segno distintivo? Ma dei gatti si può parlare anche in modo scanzonato, quasi irriverente. Lo fa il supremo Gianni Rodari.

IL GIORNALE DEI GATTI

I gatti hanno un giornale
con tutte le novità
e sull’ultima pagina
la ‘Piccola Pubblicità’.
‘Cercasi casa comoda
con poltrone fuori moda:
non si accettano bambini
perché tirano la coda’.
‘Cerco vecchia signora
a scopo compagnia.
Precisare referenze
e conto in macelleria’.
‘Premiato cacciatore
cerca impiego in granaio.’
‘Vegetariano, scapolo,
cerca ricco lattaio’.
I gatti senza casa
la domenica dopo pranzo
leggono questi avvisi
più belli di un romanzo:
per un’oretta o due
sognano ad occhi aperti,
poi vanno a prepararsi
per i loro concerti.

E infine (ma trascurando per tirannide tipografica gente come Neruda, Apollinaire, Saba, Dickinson, Achmatova e il vertiginoso Pessoa), accade che un gran veglio argentino, l’ottantaduenne Jorge Luis Borges, eterni (nella silloge La cifra) il suo gatto bianco, Beppo, in una poesia che non casualmente è dedicata a uno dei topoi principali della sua scrittura: gli specchi. Chi ha letto Finzioni sa che il primo dei racconti comincia riferendo che Bioy Casares e Borges medesimo discutevano un giorno l’opinione di «quell’eresiarca che sosteneva essere la copula e gli specchi ugualmente abominevoli, perché entrambi moltiplicano il numero degli esseri umani». Ed ecco come, diversi decenni dopo, il poeta ormai cieco (si spegnerà cinque anni dopo in Svizzera) declina il tema in versione micesca.

BEPPO

Il gatto bianco e celibe si guarda 
nella lucida lastra dello specchio 
e sapere non può che quel candore 
e le pupille d’oro non vedute 
mai nella casa sono la sua immagine. 
Chi gli dirà che l’altro che l’osserva 
è solamente un sogno dello specchio? 
Penso che questi armoniosi gatti, 
quello di vetro e quello a sangue caldo, 
sono fantasmi che regala al tempo 
un archetipo eterno. Così afferma 
Plotino, ombra lui pure, nelle Enneadi. 
Di che Adamo anteriore al paradiso, 
di che divinità indecifrabile 
siamo noi uomini uno specchio infranto?

Di chi siamo specchio, amiche e amici miei? Persuasi della nostra irripetibile unicità, non siamo pronti, e non lo saremo mai, a non essere che un riflesso, un’immagine di là da un vetro. Ma sia pure: non è che un restituire. Perché sapete e sappiamo tutti quanti specchi abbiamo osservato per sorvegliarci, per arricchirci, per crescere. Non siamo che sogni d’un’ombra. E tuttavia sogniamo. Sia lode alla poesia, che in ogni forma ci ricorda l’assoluta indispensabilità dei sogni.

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